I bambini giocano
Una stazione del metro di Kiev. È suonato l'allarme. Nella luce giallastra tutto è color cemento. Ma due bambine sugli otto anni giocano. Una si attacca alla ringhiera della scala, l'altra si lascia andare sullo scivolo per i passeggini. Una è biondissima, l'altra bruna. Fanno a gara a chi arriva prima. Poi di corsa risalgono. Ridono, ridono - come se la guerra non ci fosse. Mesi fa un'anziana lettrice di “Avvenire” mi aveva raccontato che durante la guerra, a Milano, lei bambina al suonare dell'allarme correva con i genitori nel grande rifugio a Porta Volta, vicino al Teatro Smeraldo. I bambini erano tanti, là sotto, nell'oscurità a stento rischiarata da qualche debole lampadina: e dopo poco in due o tre cominciavano a rincorrersi, e altri li seguivano, finché le loro voci chiare colmavano quel nudo bunker, nell'ora più buia. I bambini giocano. Se stanno appena bene, giocano ovunque. Per loro esiste il presente, e il futuro è astratto e lontano. Quella lettrice diceva, però, che quando lo schianto delle bombe si faceva vicino, le mamme chiamavano i bambini accanto, per dire il rosario.
M'immagino, nell'ombra, quelle covate di bambini sudati, ora ammutoliti di paura. Poi, appena finito l'allarme, rieccoli: su per le scale, di corsa, vocianti. I bambini finché hanno fiato giocano. (Per questo sono un inesauribile miracolo. Per questo, ne abbiamo tanto bisogno).
M'immagino, nell'ombra, quelle covate di bambini sudati, ora ammutoliti di paura. Poi, appena finito l'allarme, rieccoli: su per le scale, di corsa, vocianti. I bambini finché hanno fiato giocano. (Per questo sono un inesauribile miracolo. Per questo, ne abbiamo tanto bisogno).
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