Nell'islam e in Europa: abito e nome simboli della libertà da leggere
mercoledì 15 luglio 2020
Ripresa, al momento in cui è uscita, dalla gran parte dei quotidiani (per "Avvenire" da Antonella Mariani bit.ly/2Zs5v0o ), la lunga intervista di Aisha Silvia Romano a Davide Piccardo, direttore del quotidiano online "La Luce" ( bit.ly/38Vqzzk ) e leader del Coordinamento delle associazioni islamiche di Milano, è stata oggetto, nella blogosfera ecclesiale, di due commenti paralleli e convergenti. L'uno, del teologo Pino Lorizio, sul sito di "Famiglia Cristiana" ( bit.ly/2Opn8aM ); l'altro, dell'islamologo Ignazio De Francesco, su "Settimananews" ( bit.ly/2CCinbu ). Entrambi sono stati attratti, come dicono gli stessi titoli, da come la cooperante italiana parla della libertà e in particolare da una sua affermazione molto precisa legata all'abbigliamento: «C'è qualcosa di molto sbagliato se l'unico ambito di libertà della donna sta nello scoprire il proprio corpo. Per me il mio velo è simbolo di libertà». Ed entrambi ne hanno tratto significative considerazioni a proposito di come la cultura e la società occidentali interpellano l'islam. Una di esse verte strettamente sull'abito islamico, ipotizzando che, nel contesto europeo, esso non ottenga l'effetto opposto a quello voluto, cioè non finisca per «mettere in vetrina» le donne che lo indossano. Un'altra, di grande respiro, riguarda i diritti umani. Lorizio rammenta infatti che «la dignità della donna non può consistere solo nel pudore (virtù sempre necessaria), bensì anche nel riconoscimento dei diritti all'educazione, al lavoro, alla parità», citando quanto afferma «con vigore» il Documento di Abu Dhabi sulla fratellanza. De Francesco sottolinea che se «con il suo nuovo abito Silvia Aisha sente di compiere un atto di libertà», tuttavia tale conquista «l'ha introdotta in un nuovo regime di obbedienza, e molto stretta», mentre le raccomanda di non dimenticare di aggiungere al nome-simbolo della sua nuova libertà, Aisha, anche quello, Silvia, che l'ha incorporata «in una cittadinanza che le ha riconosciuto i più alti diritti individuali».
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