Nel digitale la visibilità non è sinonimo di credibilità
venerdì 30 giugno 2017

Nel mondo digitale tutto (o quasi) è tracciato. Non c'è blog, sito, articolo, profilo o azione social che non sia misurato o misurabile. Il problema, semmai, sta nella nostra capacità di saper leggere davvero quei numeri senza fermarci alla superficie, rischiando così analisi errate o molto parziali.
Per esempio: come si misura la credibilità digitale di una persona o di un'azienda? Per il vocabolario della Treccani la credibilità «è la possibilità di essere creduti». Nel nostro caso il termine si lega al suo uso più recente (anche per influenza dell'inglese credibility). Sempre dalla Treccani: «È la possibilità che una persona o anche un ente, una società, un governo, ha d'ispirare fiducia, di ottenere credito e riconoscimento». In maniera molto pragmatica Jeff Bezos, fondatore di Amazon e proprietario del Washington Post, definisce così la credibilità ai tempi del digitale: «È quello che dicono di voi (persona, azienda o prodotto poco importa - ndr) quando siete assenti».

Sapere quello che gli altri pensano di noi è una curiosità che ci accompagna fin da bambini. Non a caso, uno dei giochi praticati dalla mia generazione era far uscire uno dalla stanza e quando tornava dirgli: «C'è uno o una che dice di te... indovina chi è?». Scoprire che gli amici, i fratelli o i cugini o tutti loro insieme ci consideravano piagnucoloni, antipatici o peggio poteva però mettere a dura prova la nostra autostima. In fondo, la credibilità digitale se la misuriamo "ascoltando" davvero ciò che dicono di noi quando siamo fuori da una stanza, può crearci non pochi problemi di autostima, personale o aziendale che sia. Per questo sempre più spesso preferiamo misurare la visibilità al posto della credibilità, facendo finta che la prima sia uguale alla seconda. Come se quei numeri – di clic su un articolo o un post, di "mi piace" o di fan e follower su Facebook e Twitter – possano da soli dirci tutto.

Non è un caso che professionisti, uffici stampa e aziende da anni per misurare la credibilità dei "soggetti digitali" si affidino a un programma che si chiama Klout. Nato nel 2009 è un servizio che assegna dei punteggi agli utenti iscritti mescolando una serie di dati tratti dalle loro azioni sui social come Twitter, Facebook, Google+, YouTube, Linkedin, Foursquare, Tumblr, Instagram, Pinterest, ecc. Klout e programmi simili misurano la nostra influenza digitale. Ma nel digitale – altra cosa risaputa – tutto è comprabile. Dai fan ai "mi piace", dai clic ai follower. Anche i risultati di Klout si possono addomesticare.


Ma, allora, perché tanti li usano come se fossero verità assoluta? Perché uno dei difetti peggiori dell'uomo è la pigrizia. Vogliamo risultati semplici da capire e li vogliamo subito. Senza comprendere che avere tanti clic o tanti fan non serve a nulla se non ci preoccupiamo di curare la nostra credibilità. Perché essere seguiti o letti non significa automaticamente essere considerati credibili o autorevoli. Ci sono ogni giorno migliaia di articoli che vengono aperti solo per curiosità e solo per pochi secondi. Hanno numeri enormi di clic ma minano pesantemente la credibilità di chi li pubblica. Siamo davvero sicuri che siano utili e non dannosi?

Se le persone non si fidano di noi, a nulla serve che ci seguano. Se non pensano che ciò che abbiamo da dire o da dare loro sia importante, utile o interessante saremo magari molto popolari ma la nostra credibilità sarà minima. Persino l'essere inseriti in un contesto prestigioso non basta più. Sulla carta, per esempio, questo articolo ha valore anche per la testata che lo ospita, per lo spazio che ha, per la pagina in cui è inserito, ma una volta portato nel digitale è solo. E il suo autore con lui. Se sarà stato utile, la sua credibilità aumenterà. In caso contrario, ne avrà persa un po'. E la prossima volta ne avrà meno da cui partire. Fino a diventare così poco credibile dal finire col parlarsi addosso.

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