venerdì 14 marzo 2003
A un bambino regalerei le ali, ma lascerei che da solo imparasse a volare. Questa bella frase dello scrittore colombiano Gabriel García Márquez, Nobel 1982 della letteratura, campeggia su un foglio dell'associazione "Terre des hommes", dedita all'aiuto dell'infanzia in difficoltà. Mi sembra una bella rappresentazione dell'educazione, missione e funzione dell'adulto accanto al piccolo, della presenza discreta ed efficace del genitore e del maestro o della guida religiosa. È necessario offrire al bambino non solo cibo, vestiti, cure esterne; è indispensabile far crescere in lui il respiro della vita, aprirlo ai sogni, alla bellezza, all'infinito, all'amore. Sono queste le ali che devono sollevare la sua esistenza dal mero orizzonte fisiologico. Ma, dopo avere insegnato al bambino le modalità del volo, bisogna che egli stesso s'impegni, con le sue energie, la sua libertà, la sua coscienza, a crescere e percorrere le vie della vita. Non lo si deve portare sempre in braccio rendendolo inerte, anche se non bisogna abbandonarlo nella solitudine assoluta. Il filosofo ottocentesco Soeren Kierkegaard, meditando sulla prova di Abramo nel sacrificio di Isacco, vedeva nel racconto biblico una parabola dell'esperienza di fede e la comparava a un uso orientale. La madre, quando deve staccare da sé il figlio perché viva come persona libera, si tinge di nero il seno così che il bimbo non vi si attacchi. Il piccolo crede che la madre lo rifiuti e, invece, quel momento è il segno più alto dell'amore vero, quello che genera un uomo libero.
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