La violenza associata all'islam: come parlarne è problema di tutti
domenica 1 marzo 2015
Questa volta il primato è indiscusso: l'argomento della violenza associata all'islam è quello che negli ultimi giorni ha decisamente prevalso nell'interesse di chi pubblica notizie ecclesiali in Rete, guadagnandosi una pagina web ogni quattro che ho visitato. Ho osservato anche qualche forzatura e prodotto un po' di anticorpi, che provo a ritrasmettere.Ad esempio c'è stato chi, secondo me, ha esagerato, rimproverando al rapporto annuale di Amnesty International sui diritti umani tiepidezza verso l'Is per il fatto che, nei comunicati stampa, Amnesty precisa che è tale organizzazione ad autoproclamarsi Stato «islamico». Ma è così, da qualunque lingua si ricavi l'acronimo.Meritano secondo me di essere analizzati anche i titoli di due notizie minori. Un'altra organizzazione internazionale, "Aiuto alla Chiesa che soffre", ha annunciato qualche giorno fa «la prima chiesa cattolica in Sinai». Ma non bisogna immaginare il deserto e Mosè o la Sacra Famiglia, né le battaglie tra Egitto e Israele del secolo scorso. La nuova chiesa è a Sharm el-Sheikh, dove – salvo il rischio attentati – le battaglie principali sono, per fortuna, tra i turisti occidentali e i buffet degli alberghi. E un mese fa un'agenzia specializzata, ripresa nuovamente in questi giorni, ha raccontato di «una foresta di croci e nomi di martiri nel deserto dell'Arabia Saudita». Difficile non pensare subito alla scoperta dell'ennesima persecuzione contemporanea, se non fosse che già dopo venti parole l'articolo informa che i reperti risalgono a prima di Maometto.Gravissime sono e rimangono le strumentalizzazioni dell'Is, che diffonde immagini agghiaccianti moltiplicando, grazie al web, la forza del proprio terrorismo. Anche se le vittime sono musei e non persone. Merita, penso, molta riflessione, anche dei singoli «produttori di contenuti» digitali, la risposta annunciata da RaiNews e da Monica Maggioni che la dirige: non trasmettere mai più ciò che l'Is confeziona.
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