sabato 15 febbraio 2003
Una cosa sola è necessaria: la solitudine. La grande solitudine interiore. Andare in se stessi e non incontrarvi, per ore, nessuno: a questo bisogna arrivare. Essere soli come è solo il bambino. Se ci si accosta a un bambino assorbito in un gioco o nell'esplorazione di un oggetto, si ha subito da parte sua una reazione brusca: egli ama stare solo con se stesso, le sue fantasie, i suoi arabeschi gestuali e mentali. Poi, quando cresce, perde questa capacità di stare con se stesso e comincia, sì, la vita in compagnia, ma anche la logica del branco e del rumore di fondo, una sorta di distrazione permanente dal silenzio. Per questa via si perde la possibilità di incontrare se stessi, di ascoltarsi, di penetrare nel segreto della coscienza. È ciò che il grande poeta austriaco Rainer M. Rilke (1875-1926) evoca in una delle sue Lettere a un giovane poeta. Lo stare soli contiene in sé il germe della riflessione, della maturazione, della finezza spirituale, della stessa contemplazione di fede. Purtroppo è un esercizio che è scomparso dall'orizzonte educativo e dalla prassi quotidiana anche degli adulti. È così che si alza il tasso della superficialità, dell'irritabilità, della banalità e dell'indifferenza. Il silenzio per "andare in se stessi" è una sorta di dieta dell'anima che ci purifica dalle miserie, ci solleva dalle cose, ci libera dalla chiacchiera, ci spoglia dalle realtà inutili. Ma attenzione: anche se simili esteriormente, la vera solitudine non è isolamento, perché quest'ultimo è una prigione dell'anima e un terreno dove può sbocciare l'erba maligna dell'infelicità o compiersi la morte dell'amore.
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