La sconfitta che non passerà mai e ciò che riattacca il cuore
mercoledì 26 luglio 2017
Roberto Baggio non parla spesso, ma quando decide di farlo lascia il segno. Qualche anno fa, ormai ritirato dalle scene calcistiche già da tempo, scrisse una lunga e bella lettera ai giovani. L'occasione era un evento un po' mainstream (si trattava di una delle serate del Festival di Sanremo 2013, presentato da Fabio Fazio), ma la sua riflessione sul significato di alcune parole aveva colpito appassionati di calcio e non. Le parole erano passione, gioia, coraggio, successo e sacrificio. In particolare uno dei più talentuosi (e martoriati dal proprio fisico) calciatori del pianeta aveva parlato del coraggio dicendo: «Avere problemi, o sbagliare, è semplicemente una cosa naturale. È necessario non farsi sconfiggere. La cosa più importante è sentirsi soddisfatti, sapendo di aver dato tutto, di aver fatto del proprio meglio».
Sono passati più di quattro anni e la voce di Roberto non si è sentita spesso. È tornato a parlare pochi giorni fa, intervistato dal "Corriere della Sera". Una lunga intervista che, inevitabilmente, torna su un momento indimenticabile della carriera di Baggio, della Nazionale italiana e della storia sportiva del nostro Paese: il famoso rigore della finale di Pasadena, quello che tirato sopra la traversa, consegnò il titolo mondiale al Brasile. Il tono delle risposte si fa laconico, fino ad arrivare a un eloquente: «Provo la stessa amarezza del 1994, non passerà mai». Già, ci sono cicatrici che non passano mai. Ferite di atleti arrivati a un passo dal trionfo, ma fermatisi lì sulla soglia del successo. Certo, Roberto Baggio ha vinto tanto, è stato un campione enorme, ma quel Mondiale, quel rigore resta nella memoria collettiva come un momento crudelmente indimenticabile.
Le parole di Baggio mi hanno fatto tornare in mente tante cose, che chiunque abbia avuto l'onore di fare sport, magari vestendo la maglia azzurra della nostra Squadra Nazionale, conosce bene. I successi, piccoli o grandi che siano, sono ricordi abbastanza generici e confusi. Delle grandi sconfitte, invece, si ricorda ogni dettaglio, ogni momento, ogni azione, ogni punto. È forse questo il tormento di chi ha potuto vivere momenti esaltanti di grandezza, bellezza, adrenalina. Perché per tutti arriva il momento in cui il proprio rigore finisce sopra la traversa o il pallone si sgonfia. La condanna della memoria, quel «non passerà mai» di Roberto Baggio è forse solo un escamotage che permette a tutti, proprio a tutti (anche a quelli che non lo dichiareranno mai) di ricordare che la gloria sportiva è cosa abbastanza effimera ed è bene esserne consapevoli.
Le parole di Baggio mi hanno fatto tornare alla mente due grandi scrittori che purtroppo non ci sono più. Il primo si chiamava Osvaldo Soriano, il più grande maestro di storytelling sportivo. Scrisse un racconto meraviglioso che si intitola: «Il rigore più lungo del mondo». La storia va letta dall'inizio alla fine, tutta d'un fiato. Il finale, rispetto alla vicenda di Roberto Baggio, è al contrario. Le ultime righe di quel racconto sono affidate al Gato Dìaz, un portiere leggendario, imbolsito dagli anni, che si rivolge al ragazzo che gli ha appena segnato un rigore dicendogli: «Un giorno andrai in giro da queste parti a raccontare che hai segnato un rigore al Gato Dìaz, ma nessuno ti crederà».
Il secondo scrittore si chiamava Ugo Riccarelli, piemontese dalla penna di una sensibilità superiore, che se ne è andato esattamente quattro anni fa. Vinse il Premio Strega, ma (almeno per me) il suo lavoro più grande è un libro di racconti sportivi che si intitola «L'angelo di Coppi». L'ultimo capitolo di questo libro ormai quasi introvabile, si intitola: «Dover battere un rigore». Riccarelli, che si era sottoposto in Inghilterra, a un doppio trapianto cuore-polmoni, chiude così quel capitolo: «Era il 1990, e io ero dentro a un ospedale. Baggio invece giocava in Nazionale. Gli ho fatto fare un gol spettacolare in rovesciata, su mio passaggio, poi ho lasciato che cominciassero a riattaccarmi il cuore. Non è stata una questione di coraggio, non c'è molta scelta in quel tipo di questioni: si vive o si muore. Un po' come una finale. Un po' come dover battere un rigore».
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