mercoledì 13 giugno 2007
L'avaro vive da povero, e muore ricco. Ogni tanto le cronache confermano fatti che si ripetono da secoli: il vecchietto che cercava l'elemosina davanti a una chiesa muore e nella sua casa misera vengono alla luce pacchi di soldi e libretti bancari. Aveva ragione san Bernardo quando definiva l'avarizia come «un continuo vivere in miseria per paura della miseria». Anzi, per stare ancora ai santi, è nota la battuta attribuita a sant'Antonio da Padova, che oggi la liturgia festeggia, di fronte al funerale di un avaro ricchissimo: «Il suo cuore non riusciranno a seppellirlo, perché era troppo attaccato ai soldi!». Sopra ho citato un'altra battuta, simile a un proverbio, proposta da un giornalista, Vittorio Buttafava (1918-1983). Decine e decine di altri aforismi su questo vizio li ho diligentemente collezionati scrivendo nei mesi scorsi un libro proprio sulla storia dei sette vizi capitali. Io, però, vorrei porre l'accento su un altro tipo di avarizia, quello dei sentimenti, una cupidigia a cui poco si bada ma dagli esiti altrettanto
deleteri. Si ha, infatti, spesso la tentazione di negare al prossimo non tanto i soldi (un gesto di carità talvolta non costa molto e mette in pace la coscienza) quanto piuttosto il proprio tempo nell'ascolto, nella vicinanza, nella tenerezza. Paradossalmente questa avarizia è molto più seria perché rifiuta non tanto un bene materiale, pur importante, quanto una realtà intima e profonda che non può essere acquistata. Tutti, credo, dobbiamo confessare di esserci negati
a chi voleva solo sentirci al telefono per avere una parola buona, di aver evitato chi desiderava essere ascoltato, di aver rifiutato la compagnia a una persona sola e malata. Anche questa è avarizia meschina.
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