venerdì 9 marzo 2018
Le "maggioranze silenziose", che sono sempre meno silenziose e sempre più mandano al potere i loro più arditi e più abili esponenti, non amano le minoranze, e in particolare, mi pare, quelle che un tempo venivano chiamate "minoranze etiche". Non hanno bisogno di Cassandre, di eretici, di intellettuali o preti o profeti che ricordino le loro/nostre inadempienze, i loro/nostri compromessi, le loro/nostre ipocrisie; e sono convinte di non aver bisogno di "diversi", per lingua, fede, cultura. Sono autosufficienti, esprimono da sé i loro pensatori, e si muovono su convinzioni durature (che hanno un perno centrale: il "particulare") ma anche passeggere, perché le caratterizza l'irrequietezza nei desideri, l'aspirazione a nuovi consumi e costumi, consumi e costumi che fingano una originalità e una individualità di superficie. Prediligono da sempre chi dice cose che li confermano e consolano, chi dice quel che giova pensare invece di quel che è bene pensare. Per le necessità del viver comune, e per un sentimento della solidarietà con chi ha di meno o può di meno, un sentimento che si fa sempre più raro (e si potrebbe aggiungere: di elezione in elezione). Non amo i feroci individualisti e tanto meno, di conseguenza, quelli tra loro che gridano un individualismo che si dà a modello per masse di persone, che non sarebbero portate alla loro imitazione, ma che hanno bisogno di modelli da ammirare che appaiano più astuti di quanto loro non sono, non siamo. Non è chi grida di più ad aver più ragione, tanto meno chi disprezza chi la pensa in modo diverso dal suo. Quanto all'Italia di oggi, così priva di bussola e di buonsenso, di spirito di tolleranza e generosità, e di sentimento della giustizia, è bene ricordare un antico aneddoto, del tempo del dopoguerra. Quando Gaetano Salvemini tornò in Italia da un esilio americano di molti anni, si innervosì molto di fronte a tanti che gli dicevano o scrivevano una classica frase, insieme scettica e giustificatoria, sul "carattere degli italiani" (un tema affrontato magistralmente tanti anni fa da Giulio Bollati che era il numero due della Einaudi in un bel saggio di valor duraturo, che si consiglia agli einaudiani di riproporre). Diceva Salvemini (cito a memoria): «Tanti mi dicono che noi, gli italiani sono fatti così, che noi italiani siamo fatti così, ma il sillogismo non vale: io sono italiano, e non sono fatto così».
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI