domenica 19 giugno 2011
Se dicessi che credo in Dio, direi troppo poco perché gli voglio bene. E voler bene a uno è qualcosa di più che credere nella sua esistenza.

Un giorno, uno dei padri dello Stato di Israele, l'ebreo polacco David Ben Gurion (1886-1973), si era trovato a discutere - nel kibbuz in cui si era ritirato dopo il suo impegno politico - col filosofo ebreo austriaco Martin Buber. Lo statista era ateo e cercava di capire le ragioni della fede intensa del suo interlocutore. Alla fine il filosofo gli disse: «Se si trattasse solo di un Dio del quale fosse possibile parlare, anch'io non crederei; ma dato che si tratta di un Dio al quale si può parlare, per questa ragione io credo in lui». Questo episodio potrebbe idealmente commentare la frase che in questa domenica così "teologica" (la solennità della Trinità!) ho proposto alla comune riflessione.
A pronunciarla fu un sacerdote fiorentino che purtroppo non ho mai incontrato, anche per ragioni cronologiche (moriva nel 1967, quando io ero da poco divenuto prete). Era don Lorenzo Milani e la sua straordinaria intelligenza e il suo fervore pastorale s'intrecciavano con una forte temperie mistica. Quante volte sulle nostre labbra - lo confesso io per primo - è affiorato il nome di Dio, lo abbiamo evocato per spiegarne il mistero, lo abbiamo convocato per giustificare l'assurdo della storia, lo abbiamo invocato per le nostre necessità o per supplire alla nostra impotenza. Lo abbiamo creduto, studiato, lodato, predicato, proclamato, ma forse ben pochi di noi possono dire di averlo amato con quella freschezza e intensità che solo un innamorato conosce. In una sua ballata, il poeta Ezra Pound scriveva: «Ho amato il mio Dio come chi, bambino nel cuore, / cerchi profondi seni su cui riposare, / ho amato il mio Dio come fanciulla un uomo…».
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