mercoledì 5 settembre 2007
L'amore che non si rinnova ogni giorno e ogni notte diventa abitudine e lentamente si trasforma in schiavitù.
Questa frase del popolarissimo scrittore libanese Khalil Gibran (1883-1931) dice una verità scontata, anche se ben ardua da praticare. Non solo in amore ma anche nella fede e un po' in tutte le cose c'è un nemico sempre in agguato, apparentemente meno pericoloso dell'odio o dell'incredulità: il suo nome è «abitudine». Certo, un pizzico di consuetudine è necessario, come accade nella vita quando compiamo mille e mille azioni per inerzia ed è nell'ordine delle cose (non potremmo sopravvivere senza l'esercizio che ci fa eseguire di riflesso infiniti gesti, a partire dallo stesso respiro). C'è, però, una routine che progressivamente attanaglia i sentimenti e i pensieri e li soffoca.
È quando si perde ogni fremito, si cancellano le parole, si spegne il dialogo , si inaridiscono gli affetti, ci si trascina in una relazione stantia, senza il seme dell'umanità, della tenerezza, delle attese comuni. È il lento scivolare nella mera "convivenza" che purtroppo inquina i rapporti di molte famiglie: ciascuno entra ed
esce di casa, senza un saluto; si risponde all'altro con un grugnito; ci si siede a tavola e si accende subito il televisore; si è insieme ma solo fisicamente, non più con la mente e col cuore. Per superare questo stato che passo per passo conduce al sopore dell'amore e, alla fine, alla sua morte, è necessario tornare indietro ancora passo per passo. Sono i piccoli gesti da riscoprire, i segni minimi, le attenzioni quotidiane. A ragione lo scrittore americano ottocentesco Mark Twain affermava che «l'abitudine non puoi d'un colpo sbatterla fuori dalla finestra; bisogna farle scendere le scale un gradino alla volta».
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