sabato 20 ottobre 2007
Quando nessuno mi dice grazie, sono ringraziato abbastanza: vuol dire che ho fatto il mio dovere e nulla più.
Leggo in un articolo che questa considerazione molto nobile è dello scrittore inglese settecentesco Henry Fielding, l'autore del noto romanzo Tom Jones, storia di un trovatello (la nostra citazione è, però, desunta da un'opera minore, Vita e morte di Tom Thumb). La frase ricalca un detto di Gesù: «Quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare» (Luca 17, 10). Avere il coraggio di pronunciare questa confessione è segno di vera grandezza e nobiltà d'animo, soprattutto in un mondo in cui l'apparenza domina e quindi contano gradi, riconoscimenti e premi. Ancora Gesù ammoniva a non strombazzare le opere buone che si compiono per non averne subito una fragile e fugace ricompensa terrena.
Tuttavia questa pur vera affermazione di Fielding ci permette di sconfinare nel campo opposto: l'ingratitudine è una piaga sempre diffusa. La si vede già nel Salterio ove alla massa di suppliche fa da contrasto solo un pugno di preghiere di gratitudine. Impariamo, allora, a dir grazie qualche volta di più perché, anche se non ci badiamo, sono molti i doni che riceviamo da Dio e dagli uomini (e talora sono regali decisivi come lo è l'aria che respiriamo o l'acqua che beviamo). E non aspettiamo alla fine, come ammoniva il romanesco Cesare Pascarella ne La scoperta dell'America (1893): «Si c'è un omo de talento, quanno ch'è vivo, invece de tenello su l'artare, lo portano ar macello! Dopo more e je fanno er monumento. Ma quanno è vivo nu' lo fate piagne, e nun je inacidije er core!».
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