mercoledì 28 dicembre 2005
Ci sono tempi in cui
non si può sollevare un filo d'erba senza che ne esca un serpente. È stata una docente di letteratura francese a suggerirmi un giorno questa frase che appartiene all'epistolario di una poetessa che non avevo mai sentito nominare, Marceline Desbordes-Valmore, nata nel 1786 e morta a Parigi nel 1859. A distanza di molto tempo mi ritorna in mente per questa giornata cha la liturgia dedica alle piccole vittime della violenza brutale di Erode. È facile deprecare questi atti infami, eppure essi non sono eccezionali e la storia ce lo insegna. Anzi, la stessa quotidianità ci riporta sistematicamente di fronte alle violenze, le più atroci e innominabili, sui bambini e, più in generale, sui deboli e sugli inermi. L'immagine della poetessa è, forse, un po' forte ma coglie un'anima permanente di verità: anche in chi è "normale" e apparentemente buono c'è almeno un filo di violenza, di odio, di malizia. Lo si potrà teologicamente spiegare in tanti modi, ma il "peccato originale" col suo grumo oscuro di male e di perversione insidia ogni coscienza. È per questo che l'invocazione paolina alla grazia divina perché ci sostenga è indispensabile. È per questo che l'impegno della nostra libertà e volontà a custodire atti e parole dev'essere serio e severo. Affermava quel capolavoro della spiritualità che è l'Imitazione di Cristo: «Siamo sempre pronti a dare gran peso a quello che gli altri ci infliggono, ma quello che essi sopportano da parte nostra non ci tocca in nessun modo». E così lasciamo che i serpenti si moltiplichino"
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