sabato 20 novembre 2021
Chi conosce un po' la storia del colonialismo, sa che Gandhi, il “Mahatma”, la Grande Anima, come chiamavano, il “Bapu”, il padre del popolo indiano, riuscì nell'inimmaginabile. Guidare la sua nazione all'indipendenza dalla Gran Bretagna con la sola forza della non violenza, predicando la satyagraha, l'“amore per la verità”. Gandhi, induista, conosceva e apprezzava il Vangelo, di cui ammirava soprattutto il discorso della montagna, e tale ammirazione si rivela in più punti nella sua filosofia e nei suoi discorsi. Secondo lui a portare alla rovina della società, a corroderne da dentro la vita, sono “la ricchezza senza lavoro, il piacere senza coscienza, la conoscenza senza carattere, il commercio senza moralità, la scienza senza umanità, la religione senza sacrificio, la politica senza principi”. A qualcuno, per caso, fischiano le orecchie?
Non è forse questo il ritratto della società in cui viviamo? La direzione che ormai da decenni ha preso? Lo vediamo ogni giorno, è sotto i nostri occhi. L'economia ha preso il sopravvento su tutto, non c'è più spazio per il lavoro, i principi, la morale, il sacrificio, l'umanità, la coscienza. Non c'è più spazio per niente. Crediamo di stare bene, ma diventiamo tutti ogni giorno più poveri. Meno di un terzo del mondo consuma il novantacinque delle risorse del pianeta. La metà della ricchezza del mondo è detenuta de
dall'un per cento dell'umanità, ricchezza che tuttavia per il novantasette per cento è nelle mani di meno di un terzo di quell'uno per cento. Secondo i dati del Bloomberg Billionaire Index, un mese fa la somma dei beni dei dieci uomini più ricchi del pianeta superava la somma del Pil di quarantasei Paesi africani. Numeri impressionanti, che ogni mese ci dicono che i pochi ricchi lo sono sempre più mentre tutti diventiamo più poveri. Numeri che fanno cadere le braccia. Che uccidono la speranza.
Diceva Giovanni XXIII, «non consultarti con le tue paure, ma con le tue speranze e i tuoi sogni. Non pensate alle vostre frustrazioni, ma al vostro potenziale irrealizzato. Non preoccupatevi per ciò che avete provato e fallito, ma di ciò che vi è ancora possibile fare». E a questo ci ha chiamati Francesco qualche giorno fa, quando nell'omelia della Messa celebrata nella Giornata mondiale dei Poveri, ha chiamato tutti i cristiani a «organizzare la speranza». «Di recente mi è tornato in mente – ha detto – quel che ripeteva un Vescovo vicino ai poveri, e povero di spirito lui stesso, don Tonino Bello: “Non possiamo limitarci a sperare, dobbiamo organizzare la speranza”. Se la nostra speranza non si traduce in scelte e gesti concreti di attenzione, giustizia, solidarietà, cura della casa comune, le sofferenze dei poveri non potranno essere sollevate, l'economia dello scarto che li costringe a vivere ai margini non potrà essere convertita, le loro attese non potranno rifiorire. A noi, specialmente a noi cristiani, tocca organizzare la speranza – bella questa espressione di Tonino Bello: organizzare la speranza –, tradurla in vita concreta ogni giorno, nei rapporti umani, nell'impegno sociale e politico. A me fa pensare il lavoro che fanno tanti cristiani con le opere di carità, il lavoro dell'Elemosineria apostolica... Che cosa si fa lì? Si organizza la speranza. Non si dà una moneta, no, si organizza la speranza. Questa è una dinamica che oggi ci chiede la Chiesa».
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