giovedì 7 aprile 2005
La croce è il più profondo chinarsi della divinità sull'uomo e su ciò che l'uomo - specialmente nei momenti difficili e dolorosi - chiama il suo infelice destino. La croce è come un tocco dell'eterno amore sulle ferite più dolorose dell'esistenza terrena dell'uomo, è il compimento sino alla fine del programma messianico, che Cristo formulò una volta nella sinagoga di Nazaret e che ripeté poi dinanzi agli inviati di Giovanni. È stata la sua seconda enciclica (1980), dedicata a Dio Padre, Dives in misericordia, ossia ricco di amore misericordioso, come lo definiva s. Paolo (Efesini 2, 4). Di essa riprendiamo un brano che illumina l'amore di Giovanni Paolo II per la croce di Cristo, segno supremo dell'amore del Padre per l'umanità: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito», un Figlio innalzato sulla croce «come Mosè innalzò il serpente nel deserto, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna» (Giovanni 3, 14-16). Particolarmente significative sono tre espressioni usate dal Papa. La prima è quella che descrive il gesto del «profondo chinarsi» di Dio sull'uomo sofferente e infelice. Un chinarsi che ogni vero discepolo del Signore deve ripetere come gesto di tenerezza, un atto tante volte testimoniato e vissuto in opere e in parole da Giovanni Paolo II. C'è poi la definizione della croce come «tocco dell'eterno amore sulle ferite più dolorose dell'esistenza terrena». Il pensiero va a quel Gesù che non teme di toccare i lebbrosi, superando norme sacrali e paure infettive e gettandosi in braccio al dolore dell'umanità, passando così dal "chinarsi" al "toccare". Infine, ecco l'evocazione del «programma messianico» della sinagoga di Nazaret, in cui Cristo aveva scelto poveri, prigionieri, ciechi e oppressi non per una generica compassione ma per «dare
a loro un lieto annunzio» (Luca 4, 18-19).
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