mercoledì 22 giugno 2005
La morale, che dovrebbe essere lo studio e la pratica dei diritti e dei doveri, finisce per diventare lo studio dei doveri altrui verso di noi.
Sua madre era una cameriera e il drammaturgo August Strindberg (1849-1912) ne era rimasto sempre così umiliato e complessato da aver intitolato la sua autobiografia Il figlio della serva. Da quel libro un lettore certamente molto colto (dimostra, infatti, di conoscere lo svedese) estrae questa e altre citazioni e me le invia. La frase, sferzante, ha un indubbio fondamento di verità. Noi siamo inflessibili giudici della moralità altrui, soprattutto quando i vizi del prossimo colpiscono i nostri diritti. Quando, invece, dobbiamo giudicare noi stessi, l'oggettività della morale lascia spazio a un metro molto allentato che può essere tirato come più ci aggrada.Vorrei porre l'accento sulla definizione che Strindberg dà della morale: essa è «studio e pratica dei diritti e dei doveri». Si noti la duplicità: non basta la definizione e il riconoscimento di ciò che è bene e di ciò che è male, del giusto e dell'ingiusto, del vero e del falso. La morale è esercizio vitale e personale. Inoltre i contenuti dell'etica riguardano sia i diritti sia i doveri. Facile è premere il pedale sui primi; essi, però, hanno necessariamente un'altra faccia che è quella appunto dei doveri ed è solo nell'equilibrio di entrambi i volti che la morale ha senso ed è autentica. Ritorniamo così al punto di partenza ironico di Strindberg: non si può scaricare tutti i doveri sugli altri per tutelare i nostri diritti. Sarcasticamente lo scrittore Oscar Wilde notava che «la moralità è l'atteggiamento che adottiamo verso le persone che ci sono antipatiche»!
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