martedì 19 settembre 2006
Le calamità sono di due specie: la disgrazia che capita a noi e la fortuna che capita agli altri. È un diavolo bonario e non certo sulfureo quello che, con ironia, svela i suoi campi d'azione nell'omonimo Dizionario del diavolo, opera di un avventuroso e un po' stravagante scrittore statunitense, Ambrose Bierce (1842-1914), scomparso in Messico durante la rivoluzione zapatista. Non è la prima volta che sfogliamo quelle pagine per accorgerci che colpiscono vizi e peccati allegramente perpetrati anche da noi, sia pure senza l'ostentazione e la brutalità che il diavolo di Bierce ci dimostra. Infatti, come si fa a non riconoscere la verità della battuta sopra citata? Quante volte, di fronte al successo di una persona, abbiamo creato una cortina fumogena di sarcasmi, di recriminazioni e persino di sdegno. Certo, alcuni esiti di carriera possono lasciare sconcertati e far appellare al caso o anche gridare allo scandalo. Ma dobbiamo riconoscere che il tarlo dell'invidia inesorabilmente attacca il nostro cuore davanti al trionfo di un amico, e tutta la retorica delle congratulazioni è striata dal segreto veleno dell'amarezza e della gelosia. Aveva ragione Oscar Wilde quando diceva che è molto facile abbracciare e consolare un amico provato e umiliato, ma che è eroico e quasi impossibile stare in platea ad applaudirlo con sincero entusiasmo quando è nel giorno della gloria. Esercizio duro e ascetico è quello proposto da Paolo nella Lettera ai Romani 12, 15: «Rallegratevi con quelli che sono nella gioia» (oltre «a piangere con quelli che sono nel pianto»).
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