Ha un'impronta quasi anglosassone il microcosmo poetico di Bianca Tarozzi
sabato 13 luglio 2013
Le ultime poesie di Bianca Tarozzi le troviamo in un volumetto con una copertina sbagliata che non rende l'idea del titolo: La signora di porcellana (Di Felice Edizioni). Ci voleva più colore, più movimento, più aria. Si tratta di diciotto poesie, spesso piuttosto brevi, come in genere non succede con Bianca Tarozzi, originale e nota soprattutto per la sorprendente capacità di comporre poemetti narrativi, novelle in versi. Ho letto e molto apprezzato tutti i suoi libri, dal primo, uscito ormai venticinque anni fa, all'ultimo, Il teatro vivente, che ho pubblicato io stesso nel 2007, quando dirigevo la collana letteraria della nuova Scheiwiller.Anche queste poesie sono inconfondibili per la loro felicità. È possibile dire seriamente una cosa simile di un poeta contemporaneo? Forse è possibile, ma è raro. Per più di un secolo la musa dominante in poesia è stata l'angoscia, non la felicità. I pochi poeti che hanno fatto eccezione sono stati quelli più narrativi e più descrittivi, come Gozzano, Saba, Bertolucci, gli inventori di una microepica del presente o del passato, gremita di scene, luoghi spariti, figure e storie di una volta, spazi definiti, oggetti desueti, nomi propri, favole di identità, con una nostalgia estatica di momenti edenici. E tutto questo in versi. Voglio dire in veri versi, versi regolari, riconoscibili, i più praticati e praticabili in lingua italiana, maneggevoli come semplici e irrinunciabili utensili domestici: in prevalenza endecasillabi, frequenti i settenari, ogni tanto un quinario, a volte una rima.Bianca Tarozzi sembra che abbia imparato dagli inglesi e dagli americani (che ha tradotto) ad accettare la felicità di comunicare in versi di "senso comune", non sublimi né sibillini. È questa la felicità che afferra subito il lettore: la felicità di trasgredire a una norma o convenzione attuale (la poesia enigmistica in versi liberi) per ritrovarne una in disuso, come si trova un favoloso tesoro nascosto in soffitta: la lingua di un microcosmo familiare, infantile e remoto, sottratto alla tirannia del presente.
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