sabato 13 novembre 2021
Tra il 1973 e il 1974 Giorgio Gaber portò in giro per i teatri italiani uno spettacolo che si intitolava "Far finta di essere sani". Monologhi e canzoni in cui il "cantattore", come all'epoca era stato definito per il genere di spettacolo che aveva inventato, raccontava con amarezza la disillusione della generazione che aveva creduto al '68. Nella canzone che dava il titolo allo spettacolo, Gaber metteva alla berlina quegli irriducibili che continuavano a "far finta di essere sani", rifiutandosi di fare i conti con la realtà. Potesse riscriverla oggi, nel tempo a-ideologico in cui viviamo, probabilmente con "Far finta di essere sani" Gaber prenderebbe di mira tutti quelli che vivono nell'illusione dell'immortalità, che fanno finta di essere sani per non dover fare i conti con la realtà della vita concreta, fatta di dolore, di malattia, di sofferenza. Sono molti, troppi, a vivere questa finzione. A illudersi che il mondo, la vita siano qualcosa tagliato su misura per loro, rifiutando l'evidenza della fragilità umana. Alimentando così quella "cultura dello scarto" tante volte denunciata da Papa Francesco, che non vede, esclude i deboli, a cominciare da malati, anziani, invalidi, poveri. Eppure, sono proprio questi deboli i primi ai quali dovremmo tendere la mano, verso i quali ci dovremmo chinare. Bergoglio l'ha ricordato venerdì della scorsa settimana, celebrando la messa al Policlinico "Gemelli": «Se vogliamo amare davvero Dio – ha detto – dobbiamo appassionarci dell'uomo, di ogni uomo, soprattutto di quello che vive la condizione in cui il Cuore di Gesù si è manifestato, cioè il dolore, l'abbandono, lo scarto; soprattutto in questa cultura dello scarto che noi viviamo oggi». E nel nome del Cuore di Cristo, ha aggiunto, «chiediamo la grazia di appassionarci all'uomo che soffre, di appassionarci al servizio, perché la Chiesa, prima di avere parole da dire, custodisca un cuore che pulsa d'amore. Prima di parlare, che impari a custodire il cuore nell'amore».
E ugualmente bisogna ricordare che «la forza che non viene da noi, ma da chi sta con noi: da lì viene la forza. Gesù, il Dio-con-noi, ci dà questa forza, il suo Cuore dà coraggio nelle avversità. Tante incertezze ci spaventano: in questo tempo di pandemia ci siamo scoperti più piccoli, più fragili. Nonostante tanti meravigliosi progressi, lo si vede anche in campo medico: quante malattie rare e ignote! Quando trovo, nelle udienze, persone – soprattutto bambini, bambine – e domando: "È ammalato?" – [rispondono] "Una malattia rara". Quante ce ne sono, oggi! Quanta fatica a stare dietro alle patologie, alle strutture di cura, a una sanità che sia davvero come dev'essere, per tutti. Potremmo scoraggiarci. Per questo abbiamo bisogno di conforto. Il Cuore di Gesù batte per noi ritmando sempre quelle parole: "Coraggio, coraggio, non avere paura, io sono qui!". Coraggio sorella, coraggio fratello, non abbatterti, il Signore tuo Dio è più grande dei tuoi mali, ti prende per mano e ti accarezza, ti è vicino, è compassionevole, è tenero». E allora «se guardiamo la realtà a partire dalla grandezza del suo Cuore, la prospettiva cambia, cambia la nostra conoscenza della vita... Incoraggiamoci con questa certezza, con il conforto di Dio. E chiediamo al Sacro Cuore la grazia di essere capaci a nostra volta di consolare. È una grazia che va chiesta, mentre ci impegniamo con coraggio ad aprirci, aiutarci, portare gli uni i pesi degli altri».
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