Famiglia Mbandà, mischiando i colori...
mercoledì 9 dicembre 2020
Maxime Mbandà è un marcantonio di ventotto anni il cui padre è un medico chirurgo congolese e la madre un insegnante di Benevento. La sua professione? Rugbista, terza linea, un ruolo dello sport dalla palla ovale che mette insieme forza e abilità tecniche, che tra le altre cose, è fondamentale nel sostenere la mischia. Era una terza linea anche François Pienaar, il capitano della nazionale sudafricana cui Nelson Mandela affidò il compito di compattare il Paese dopo la lunga stagione dell'apartheid. Riuscì, Pienaar, a vincere la Coppa del Mondo e a unire il Sudafrica: lui, bianco, sollevò il trofeo di fianco a Madiba, il suo Presidente dalla pelle nera.
Anche Mbandà ha la pelle nera, ed è italiano, atleta della nostra Nazionale e Cavaliere della Repubblica, perché il presidente Mattarella ha voluto così riconoscere il suo impegno di atleta imprestato all'emergenza come volontario sulle ambulanze di Parma, durante il primo lockdown. Mbandà, che nella primavera scorsa si era sottoposto a turni massacranti, anche di 12 ore al giorno, non ha potuto partecipare alla cerimonia di consegna dell'onorificenza per non rompere la “bolla” cui era sottoposto in vista dei suoi impegni in Nazionale. Un sacrificio individuale per rispettare il suo impegno con la squadra azzurra. A inizio di novembre un'altra prova: sia il padre sia la madre si ammalano di Covid. Lui, che sei mesi prima aveva donato tutto se stesso al soccorso degli altri, si scopre impotente di fronte al dramma che lo tocca più da vicino. La situazione del padre si complica e Maxime, in pieno sconforto, un giorno affida a Instagram questi pensieri:
«Perché sono i miei genitori. Perché ho sempre sperato di non trovarmi in questa situazione. Perché non se lo meritano, come non lo merita nessuno. Perché posso chiamarli per massimo un minuto ogni tot ore per non peggiorare la situazione. Perché toglie il respiro a loro dentro, ma anche a me che sono fuori. Perché non posso stare lì con loro. Perché sono impotente. Perché in questo momento vorrei esserci io al posto loro. Perché l'uomo è tanto intelligente quanto stupido. Perché se ti dicono di tenere questa c***o di mascherina e di rispettare il distanziamento non è per farti lamentare di quanto tutto questo sia fastidioso, ma è per salvare chi ti sta intorno. Perché c'è ancora gente che pensa che tutto questo sia una finzione. Perché è sempre stato così: se non vedi non credi. Perché finché non lo provi sulla tua pelle o su quella dei tuoi cari non ti rendi conto. Perché la vita è una. Perché dovevo giocare contro l'Inghilterra e non volevano farmi preoccupare. Perché vorrei tornare indietro nel tempo. Perché il mio sogno da bambino era quello di inventare qualcosa che li facesse vivere per sempre. Perché non c'è cosa al mondo per me più importante della mia famiglia. Perché ti accorgi che da un giorno all'altro, in un istante, la tua vita possa essere sconvolta. Perché non mi è rimasto altro che aggrapparmi a un telefono e sperare».
Il 2020 di Maxime ha ancora in serbo sorprese: il 1° dicembre sua moglie Cristiana dà alla luce il loro primo figlio, Mata Leone, mentre i nonni stanno ancora combattendo il virus. La forza della vita irrompe e due giorni dopo nonno Luwe esce dalla terapia intensiva. Poche ore prima di scendere in campo per il match con il Galles, Maxime posta la sua felicità e scrive: «Famiglia Mbandà, mischiando i colori dal 1993» (il suo anno di nascita). Una storia incredibile, dieci mesi che hanno stravolto la vita di questo ragazzo dal cuore infinito, vissuti prima sul fronte e poi da lontano, all'interno della “bolla” azzurra. Dolore, coraggio, paura, come tutti, ma con un lieto fine di cui abbiamo bisogno come l'ossigeno, per continuare ad avere fiducia che quest'anno assurdamente complicato e pieno di dolore e perdite, possa, in qualche modo, essere un punto di partenza.
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