sabato 22 settembre 2007
Offro il mio corpo perché sia consumato. Dono la mia carne a quelli che hanno fame, il mio sangue a chi ha sete, la mia pelle a chi è nudo, le mie ossa come combustibile per chi ha freddo. Offro la mia gioia, la mia felicità agli sventurati, il mio respiro vitale per rianimare i moribondi.
A notte fonda chiudo il fascicolo di una rivista religiosa francese che stavo leggendo e nella quarta di copertina, al centro, trovo questa preghiera definita come "tibetana" e quindi appartenente a una spiritualità lontana che, però, s'intreccia con quella cristiana sul tema della donazione di sé e dell'amore. Ripeto anch'io queste parole, così come invito a fare stasera i miei lettori, forse solo per scoprire quanto siamo distanti da un amore che sia anche autentico sacrificio di se stessi.
«Ama il prossimo tuo come te stesso», ammoniva già l'Antico Testamento, ripreso da Gesù, il quale però aveva trasformato quel parallelo in un altro ancor più esigente: «Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato», cioè fino alla consegna totale del proprio corpo e della propria esistenza all'altro, perché «non c'è amore più grande di colui che dà la vita per la persona che ama». Certo, questo ideale supremo solo raramente si compie tra gli uomini; tuttavia conosciamo persone che sacrificano carne, sangue, ossa, respiro e felicità per essere vicine a un figlio disabile, a un genitore devastato dalla vecchiaia, a un fratello che è disperato. Dobbiamo, allora, imparare a superare la legge del calcolo, dell'interesse, dell'egoismo, se vogliamo gustare il vero sapore dell'amore puro e assoluto.
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