Dietro il campione c'è un'estinzione
mercoledì 25 settembre 2019
Si è recentemente ricordato l'anniversario di una gigantesca impresa sportiva: il 19"72 sui duecento metri di Mennea, ancora oggi, quaranta anni dopo, record europeo. Meno del dovuto, tuttavia, si è parlato di un fattore necessario a quell'impresa: il rapporto, forse unico e irripetibile, fra un uomo e il suo mentore. «Non credo nella predestinazione. I risultati si ottengono solo con molto lavoro. Nella mia carriera mi sono allenato cinque-sei ore al giorno, tutti i giorni, per trecentosessantacinque giorni l'anno, tra gare e allenamenti, per quasi vent'anni. E tutti i miei record sono venuti dopo grosse arrabbiature». Pietro Mennea, quattordicenne che sfidava per scommessa le Alfa Romeo per le strade di Barletta, trovò un allenatore, Carlo Vittori, capace di entrare in simbiosi con lui e trasformare quella ferocia agonistica in allenamenti che superavano la normale umana soglia di sopportazione. Vittori fu capace di dare un metodo a Mennea, trasformando, come farebbe un architetto con la materia prima, quella sua enorme forza di volontà in successi, quell'enorme potenziale in prestazione.
«Pietro era il peggior nemico di se stesso, perché non si amava molto, io ho imparato da lui a fare l'allenatore», diceva Vittori. Pietro Mennea e Carlo Vittori seppero dar forma a un binomio assolutamente unico, a una sorta di bisogno, l'uno dell'altro, per realizzare le rispettive missioni. Carlo Vittori, che era stato velocista all'inizio degli anni 50, da tecnico fu un innovatore, fautore di un approccio totalizzante, che prevedeva carichi di lavoro pesanti e uno spietato rigore nell'applicazione. Trovò in Mennea l'interprete ideale delle sue teorie e una volta scoccata la scintilla della comunione di intenti, la loro unione, pur con qualche inevitabile scossone, arrivò a produrre il massimo risultato immaginabile. «Io mi allenavo di più di quanto lui mi chiedesse», raccontava Mennea, esempio di atleta a cui il coach aveva insegnato a essere vero allenatore di sé, tanto da andare oltre alle sue stesse richieste. Per diventare il più forte velocista del suo tempo Mennea aveva deciso che se il suo allenatore gli chiedeva dieci, lui avrebbe fatto dodici.
Nella relazione, sempre unica, sempre diversa, che si innesca fra coach e coachee l'allenatore deve lavorare per la sua estinzione, investendo nella capacità di tirare fuori tutto dal suo atleta, ma restando un passo indietro. Non è un caso, ma una splendida metafora, che ai Giochi Olimpici gli allenatori non vengano premiati con la medaglia, che spetta solo agli atleti. Lavorare fino ad annullare il proprio lavoro, per tirare fuori tutto ciò che i propri atleti hanno dentro, ecco il compito ultimo: l'allenatore, quando realizza in modo perfetto il suo compito, scompare e trasforma il proprio atleta nel migliore degli allenatori possibili.
Una volta, in California, Mennea venne presentato a Muhammad Ali come «l'uomo più veloce del mondo». «Ma tu sei bianco!», sbottò il grande pugile. «Sì, ma dentro sono più nero di te», rispose Pietro, capace poi di fulminare un giornalista che, dopo avergli ricordato di quelle cinque-sei ore al giorno (di tutti i giorni, per vent'anni) passate a rincorrere Vittori che lo incitava da bordo di una Vespa, gli aveva chiesto: «Pietro, sinceramente lo rifaresti?». «Forse no», rispose, preparando teatralmente la frase che più avrebbe reso orgoglioso Vittori: «In effetti avrei dovuto allenarmi un po' di più».
Ecco spiegata, in carne, ossa e muscoli, la differenza etimologica che passa fra due verbi apparentemente simili: istruire ed educare. Istruire, dal latino in-struere, significa inserire, portar dentro ed è il gesto di chi deve riempire un contenitore. Educare deriva invece da ex-ducere che letteralmente significa tirar fuori, far venire alla luce qualcosa di nascosto. Quello di incontrare meno istruttori e più educatori è il miglior augurio che noi possiamo fare, soprattutto, ai nostri giovani.
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