sabato 21 agosto 2004
Di tutto quello che avrò, non sarò né avaro custode né prodigo scialacquatore. Nulla crederò di possedere maggiormente che le cose donate. Darò prima di essere pregato, anzi anticiperò le giuste richieste. Se vivrò così, le ricchezze saranno mie; altrimenti sarò io ad appartenere alle mie ricchezze. Si immaginò persino nell'antichità un suo epistolario con s. Paolo, tanta era la stima che i cristiani nutrivano per Seneca, filosofo latino, nato a Cordoba in Spagna nel 4 a.C. e morto suicida a Roma nel 65 d.C. dopo che Nerone l'aveva condannato a morte, volendo affermare col suo gesto l'indipendenza e la libertà del saggio rispetto al potere. Un lettore mi invia queste frasi desunte dalle 124 lettere che Seneca indirizzò all'amico Lucilio (almeno quelle a noi giunte). Il tema dominante è quello del dono e del distacco, frutto del pensiero stoico ma esaltato anche dal cristianesimo. Particolarmente significative sono due frasi. La prima: io posseggo in modo autentico non le cose che trattengo cupidamente, ma quelle che dono. Dare agli altri è arricchire se stessi. E' la paradossale legge evangelica del perdere per trovare . O quella sottesa al detto di Gesù citato da Paolo: «C'è più gioia nel dare che nel ricevere!» (Atti 20, 35). Una sferzata all'ansia del possesso, dell'arricchimento sfrenato, dell'attaccamento morboso che alla fine genera solo incubi e vuoto interiore. Si giunge, così, all'altra considerazione: noi dobbiamo dominare i nostri beni, usandoli come strumenti e non trasformandoli in idoli che ci dominano e ci asserviscono. Anche lo scrittore ateo francese André Gide osservava che «tutto quello che non si è capaci di dare alla fine ci possiede».
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