Chi paga più caro il prezzo dell'incertezza
domenica 27 aprile 2025

Qualche anno fa alcuni esperti del Fondo monetario internazionale hanno elaborato un indicatore che misura l’incertezza economica globale. Si calcola misurando tutte le volte in cui il termine “incertezza” compare nei rapporti previsionali elaborati dai loro colleghi sulla situazione dei diversi Paesi analizzati, e – per quanto teorica – è una sintesi piuttosto affidabile dell’aria che tira nel mondo: l’ultimo valore, aggiornato a marzo, è pari a 53.189,5, a un passo dai 56.223,6 punti toccati cinque anni fa, quando stava dilagando la pandemia.

Questa volta il contagio è partito dall’America di Trump, che ha deciso di scatenare una guerra commerciale senza precedenti, minacciando (e iniziando ad applicare) dazi a quasi tutte le economie del globo, grandi e piccole. Fin qui siamo alla plastica rappresentazione di una dinamica che tocchiamo tutti con mano da settimane, ascoltando le colorite espressioni del presidente tycoon, vedendo le borse crollare e guardando ai possibili rincari di alcuni prodotti di prima e seconda necessità.

Ma chi pagherà il prezzo più alto di questa inedita e clamorosa situazione di incertezza? Un quadro molto più raffinato è emerso sempre nell’ambito del Fondo monetario, che in questi giorni a Washington – durante il consueto meeting di primavera – davanti a ministri, banchieri ed esperti ha aggiornato le sue previsioni di crescita economica per ogni Paese. Ne abbiamo scritto in questi giorni su Avvenire, ma vale la pena farne un ripasso, anche perché le previsioni precedenti erano di gennaio, dunque adesso confrontarle significa calcolare il primo effetto Trump sull’economia: il mondo, si stima oggi, nel 2025 dovrebbe veder crescere il proprio Prodotto interno lordo del 2,8%, mezzo punto in meno di quanto ci si attendeva a gennaio (3,3%). Guardando alle singole economie nazionali, le attese sono state tagliate per quasi tutti, ma con alcune significative differenze: la Germania starà a zero (contro il +0,3%), per l’Italia Pil dimezzato a +0,4% (da +0,8%), l’area euro dovrà accontentarsi di un +1% (da +1,2%) e la Cina del 4% (contro il 4,6%). Molto più pesante la sforbiciata per gli Stati Uniti, che a gennaio erano dati in crescita del 2,7% e oggi dell’1,8%: quasi un punto in meno, il taglio più consistente tra le economie sviluppate.

In pratica, Trump rischia di pagare in casa il conto più salato della politica aggressiva da lui avviata e dell’incertezza che ne è conseguita. Basterà a fargli cambiare idea? È presto per dirlo, anche se la cautela delle ultime settimane potrebbe essere un indizio in questa direzione. Anche perché ormai è chiaro che senza una marcia indietro sui dazi «metteremo a rischio decenni di progressi», come ha ricordato il governatore di Bankitalia Fabio Panetta, a sua volta presente al meeting di Washington. E proprio da quel consesso - un paio di giorni prima del funerale di papa Francesco e del faccia a faccia Trump-Zelensky con annessi spiragli di pace - è uscita un’istantanea che merita attenzione: «America first», prima l’America, è diverso da «America alone», l’America da sola, ha rimarcato il segretario al Tesoro del gabinetto Trump, Scott Bessent. Un altro segnale conciliante, che non cancella l’incertezza ma può forse aiutare a contenerla.


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