venerdì 31 ottobre 2003
Tendo le mie braccia al mio Redentore" e per sua grazia attendo la morte in pace, nella speranza di essergli eternamente unito; e vivo intanto con gioia, contento per quello che gli è piaciuto darmi e contento anche della sofferenza che il suo esempio mi ha insegnato a sopportare. Eccoci ancora una volta alle soglie del mese di novembre, il mese che la tradizione popolare ha legato alla memoria dei defunti. Il pensiero della morte sfiora raramente le nostre menti, anche perché sembra che raggeli la nostra voglia di vivere. In realtà ben diverso dovrebbe essere il suo effetto, come testimoniano le parole citate, scritte da un genio dell'umanità. È il filosofo e scienziato Blaise Pascal nei suoi Pensieri (n. 737) a lasciarci questa testimonianza di serenità. Egli morirà a soli 39 anni, nel 1662, ma quella meta estrema era per lui illuminata dalla certezza di un incontro tanto sperato (la «speranza di essere eternamente unito al Redentore»). Proprio tenendo fissa questa meta, egli aveva vissuto con intensità e pace la sua breve vita, nelle gioie e nelle sofferenze. E ancor oggi ci ammonisce così: «Gli uomini non potendo guarire dalla morte, sperando di essere felici, hanno deciso di non pensarci.
È tutto ciò che hanno saputo escogitare per consolarsi. Ma è un rimedio ben misero perché, invece di affrontare il male, vogliono solo nasconderlo fino a quando possono» (Pensieri n. 213). Svelare nella sua realtà la morte conduce a una scoperta: essa non è una fine ma un fine. È una meta ove, come scriveva un pensatore ebreo, Franz Rosenszweig, «prende inizio e si eleva ogni conoscenza circa il Tutto». Fermiamoci, allora, in questi giorni qualche momento a riflettere sulla vita e sulla morte.
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