Le “Tre ciotole” di Isabel Coixet si perdono tra gli stereotipi
Ci sono film che mancando di trama o di sceneggiatura “forti”, si riassumono nella loro sfida formale, nel tentativo di rappresentazione stilistica che esprimono
Ci sono film che mancando di trama o di sceneggiatura “forti”, si riassumono nella loro sfida formale, nel tentativo di rappresentazione stilistica che esprimono. La regista spagnola Isabel Coixet con Tre ciotole non si lancia però in nessuna sfida, perché la Roma che racconta è stereotipata, naturalmente bella nei tramonti rosso e indaco striati da stormi di rondini, negli appartamenti luminosi affacciati sugli alberi, nelle trattorie quelle sì che lanciano sfide - di sperimentali “nouvelles cuisines”, attrattive per romani e turisti. Il protagonista maschile (un Elio Germano sempre bravo e intenso, sebbene qui sottoutilizzato) apre un ristorante dall’enfatico nome “Senza fine”, e a partire da quella sua impresa professionale la sua relazione di coppia entra in crisi, e per decisione di lui si conclude.
Lei, Marta il suo nome (Alba Rohrwacher), incomincia così un doloroso calvario, di solitudine e lutto per l’abbandono prima, subito poi di cataclisma dato l’improvviso fronteggiare una malattia terminale, il cui drammatico decorso oncologico affronta completamente da sola. Di lavoro è insegnante di ginnastica in un liceo (stereotipata anche l’atmosfera scolastica), e la sua vita pare affollata da soli fantasmi, compreso quello di un cantante coreano di radiosa bellezza con la cui sagoma di cartone ad altezza naturale (trovata in strada e portata a casa), intrattiene conversazioni improbabili e si fa compagnia. Il film procede a rilento, senza intensità nonostante la caratura degli attori: casting poco azzeccato, perché alla notorietà e bravura degli interpreti non è giocoforza equivalente la giustezza dei ruoli che impersonano. Vale anche per le figure secondarie, Francisco Carril (magnifico nella serie televisiva spagnola Dieci capodanni che abbiamo visto su Raiplay) qui opaco nei panni di un galante professore collega di Marta; la carismatica Sarita Choudury poco incisiva nei panni della dottoressa che (lei sola) è vicina a Marta nel dramma del galoppare della malattia.
Fragile anche la tonalità della sceneggiatura: tratta dall’omonima e postuma raccolta di racconti della scrittrice Michela Murgia, il film Tre ciotole non ne possiede però l’ariosa profondità. Se abitata dall’incombere della morte, la vita tuttavia pulsava sulle pagine della scrittrice sarda (scomparsa nel 2023), qui quella stessa vitalità fatta di libertà ristagna, impacciata, si incaglia, privando di emozioni la sofferenza data dal prospettarsi della fine imminente. Una cortina di opacità e di immobilismo emotivo impedisce alla vicenda il dono di saper volare al di sopra degli avvenimenti, toglie ossigeno alla portata di universalità di frammenti di storie e di voci che nel libro componevano un mosaico toccante, e che qui invece si diluiscono e si smarriscono in una rappresentazione davvero troppo flebile.
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