La preghiera è affacciarsi con coraggio su Dio Padre
XVII Domenica del tempo ordinario - Anno C
XVII Domenica del tempo ordinario - Anno C
«Ebbene, io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto. Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà una serpe al posto del pesce? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione? Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!».
Eppure, Signore, come leggere queste parole alla madre che ha visto morire suo figlio e che certo ti ha invocato tra le lacrime con tutto il suo cuore straziato? Come risuonano queste parole in chi ha chiesto e non ha ricevuto risposta, ha cercato e non ha trovato, ha bussato e la porta è rimasta ostinatamente chiusa? Quando sembra che tutto congiuri contro, quando ogni spiraglio sembra sbarrarsi e togliere l’aria, quando pare che si affondi nel fango sempre un centimetro di più?
Sono promesse queste che hai fatto che noi leggiamo e ci speriamo e crediamo che siano miracolose: ecco, io ti chiedo e Tu, magicamente, mi esaudisci; ecco, io busso incessantemente alla tua porta e Tu, la spalanchi e tutto si risolve. Finalmente. Come vorremmo che fosse davvero così, come vorremmo che Tu fossi ai nostri ordini, dispensatore di grazie e miracoli, pompiere dei nostri incendi, vigile urbano del nostro traffico intasato. Pronto a risolvere i nostri problemi, i nostri drammi, le nostre fatiche.
Ma forse, il nodo, è in quell’insegnarci a pregare con cui i discepoli interrogano Gesù, dopo aver visto la sua preghiera. Sappiamo noi davvero pregare? Gesù ci ha lasciato non delle parole da mandare a memoria e recitare, ma uno stile di vita. E sembra dirci che la preghiera non è un chiedere, ma piuttosto uno sporgersi su Dio, un affacciarsi con coraggio su di Lui e dargli del “Tu” chiamandolo “Padre Nostro”, “Abbà”. Quasi a ricordarGli che non può abbandonarci, quasi a voler sottolineare che c’è un legame stretto, di sangue, tra noi e Lui.
Ma se questo è vero per Gesù, lo è altrettanto per me? Cioè, io mi sento davvero Suo figlio in ogni mia cellula, in ogni mia più piccola fibra, ogni attimo della mia frenetica vita? Dovrei allora cominciare dal ripensare al nostro rapporto Padre/figlio, a ciò che impercettibilmente, ma sostanzialmente ci lega l’uno all’Altro. Proprio quel filo prezioso.
Forse, quando avrò sciolto questo dubbio potrò andare avanti nella preghiera e chiederTi così un po’ di pane, una carezza sui miei sbagli e un po’ di forza per andare avanti. Solo dopo però averTi riconosciuto come un seme nascosto nel mondo, come un Padre pronto a carezzare, come un soffio di eternità innestato nel mio soffio di vita.
No, non sono le domande che mi stancano, ma le risposte: le Tue risposte sempre nascoste e infinitamente più grandi di quel che chiedevo.
Perché sei sempre un Dio smisurato.
E allora che mi importa se non avrò ricevuto le cose che Ti ho chiesto, ma ho potuto toccare Te?
(Letture: Genesi 18,20-32; Salmo 137; Colossesi 2,1214; Luca 11,1-13)
Eppure, Signore, come leggere queste parole alla madre che ha visto morire suo figlio e che certo ti ha invocato tra le lacrime con tutto il suo cuore straziato? Come risuonano queste parole in chi ha chiesto e non ha ricevuto risposta, ha cercato e non ha trovato, ha bussato e la porta è rimasta ostinatamente chiusa? Quando sembra che tutto congiuri contro, quando ogni spiraglio sembra sbarrarsi e togliere l’aria, quando pare che si affondi nel fango sempre un centimetro di più?
Sono promesse queste che hai fatto che noi leggiamo e ci speriamo e crediamo che siano miracolose: ecco, io ti chiedo e Tu, magicamente, mi esaudisci; ecco, io busso incessantemente alla tua porta e Tu, la spalanchi e tutto si risolve. Finalmente. Come vorremmo che fosse davvero così, come vorremmo che Tu fossi ai nostri ordini, dispensatore di grazie e miracoli, pompiere dei nostri incendi, vigile urbano del nostro traffico intasato. Pronto a risolvere i nostri problemi, i nostri drammi, le nostre fatiche.
Ma forse, il nodo, è in quell’insegnarci a pregare con cui i discepoli interrogano Gesù, dopo aver visto la sua preghiera. Sappiamo noi davvero pregare? Gesù ci ha lasciato non delle parole da mandare a memoria e recitare, ma uno stile di vita. E sembra dirci che la preghiera non è un chiedere, ma piuttosto uno sporgersi su Dio, un affacciarsi con coraggio su di Lui e dargli del “Tu” chiamandolo “Padre Nostro”, “Abbà”. Quasi a ricordarGli che non può abbandonarci, quasi a voler sottolineare che c’è un legame stretto, di sangue, tra noi e Lui.
Ma se questo è vero per Gesù, lo è altrettanto per me? Cioè, io mi sento davvero Suo figlio in ogni mia cellula, in ogni mia più piccola fibra, ogni attimo della mia frenetica vita? Dovrei allora cominciare dal ripensare al nostro rapporto Padre/figlio, a ciò che impercettibilmente, ma sostanzialmente ci lega l’uno all’Altro. Proprio quel filo prezioso.
Forse, quando avrò sciolto questo dubbio potrò andare avanti nella preghiera e chiederTi così un po’ di pane, una carezza sui miei sbagli e un po’ di forza per andare avanti. Solo dopo però averTi riconosciuto come un seme nascosto nel mondo, come un Padre pronto a carezzare, come un soffio di eternità innestato nel mio soffio di vita.
No, non sono le domande che mi stancano, ma le risposte: le Tue risposte sempre nascoste e infinitamente più grandi di quel che chiedevo.
Perché sei sempre un Dio smisurato.
E allora che mi importa se non avrò ricevuto le cose che Ti ho chiesto, ma ho potuto toccare Te?
(Letture: Genesi 18,20-32; Salmo 137; Colossesi 2,1214; Luca 11,1-13)
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