venerdì 27 marzo 2015
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Ogni giorno un passo in più verso l’abisso dello scontro totale, con il sovraccarico di un’ulteriore deriva settaria regionale. La crisi di sicurezza nello Yemen subisce continue escalation: dopo anni di scontri, prima la conquista della capitale da parte dei ribelli sciiti Huthi e l’estromissione del presidente Hadi, rifugiatosi nell’Oman; poi il terribile attentato qaedista che ha falcidiato più di cento civili sciiti mentre pregavano in moschea e che ha spinto a un’ulteriore avanzata Huthi verso sud, fino a minacciare la città di Aden. Infine, la decisione dell’Arabia Saudita di intervenire direttamente nel conflitto, assumendo il controllo dello spazio aereo yemenita e bombardando i ribelli. I sauditi, del resto, hanno sempre considerato lo Yemen il loro cortile interno, reagendo con grande allarmismo a ogni interferenza, nonostante si siano sempre dimostrati incapaci di mettere ordine nel ginepraio tribale e jihadista di quel Paese. Ossessionati dall’Iran, hanno sempre visto i ribelli sciiti come null’altro che marionette nelle mani di Teheran (una visione caricaturale di un fenomeno tribale molto più complesso) e, quindi, come nemici da contrastare a ogni costo. Fedeli a questa visione "esclusivista", hanno bloccato un tentativo di mediazione del Qatar fra sunniti e sciiti yemeniti. Mediazione che difficilmente avrebbe avuto successo, ma la cui brutale sconfessione da parte saudita ha paradossalmente spinto l’Iran a muoversi con maggiore decisione in quel quadrante. Insomma, l’ennesima profezia che si auto-avvera e che contribuirà a peggiorare ulteriormente lo scontro settario in tutto il Medio Oriente. Perché accanto a Riad sono subito scesi in campo le altre monarchie petrolifere del Golfo (con l’esclusione dell’Oman) e l’Egitto di al-Sisi, che tanti debiti (politici ed economici) ha nei confronti dei sauditi e che vede in questa crisi la possibilità di ricollocarsi al centro del sistema politico regionale arabo. Questa coalizione anti-Huthi sembra godere anche dell’appoggio statunitense. Una scelta di campo tutto sommato ovvia, ma di cui forse a Washington non sono chiare tutte le implicazioni politiche regionali.Perché l’entrata diretta sul campo militare dell’Arabia Saudita e dei suoi alleati non potrà che aggravare le tensioni in tutta l’area del Levante e del Golfo. Per l’Iran è l’ennesimo segnale dell’inutilità degli sforzi del presidente moderato Hassan Rohani di "riagganciare" l’Arabia e allentare lo scontro settario. Il nuovo re saudita Salman appare, se possibile, ancor più ostile agli sciiti e agli iraniani del suo predecessore. Un’animosità che si traduce in una politica di scontro con conseguenze in ogni teatro geo-strategico. Innanzi tutto, in Siria e Iraq, dove i governi vicini all’Iran sono stati da sempre osteggiati dai sauditi e dove una coalizione mal assortita deve combattere il califfato terrorista dell’Is. Come immaginare di ridurre lo scontro settario nel Levante – unica strada per combattere il jihadismo – in uno scenario di tale contrapposizione? Tanto più che nello Yemen al-Qaeda è molto forte e attiva contro i ribelli sciiti: vi è il pericolo reale che qualche attore regionale finisca con il ritenere le cellule qaediste il minore dei mali, con conseguenze molto pericolose per la lotta al jihad globale.Ma sullo sfondo vi è anche il tormentato negoziato sul nucleare con l’Iran: un accordo sembra finalmente a portata di mano, nonostante le feroci resistenze dei rispettivi falchi. Non è un mistero che nella regione siano in molti a tifare per un fallimento di queste trattative. L’Arabia Saudita è in prima fila nel tentativo di boicottare la possibile intesa, assieme alla destra israeliana del premier Netanyahu, che ha rivinto le elezioni cavalcando in modo populista le paure israeliane. E chissà che non vi sia chi spera proprio in una reazione spropositata iraniana nello Yemen che permetta di far saltare il tavolo nucleare. Insomma, quanto è in gioco nel Sud della penisola arabica è molto più di uno scontro tribale.
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