giovedì 3 febbraio 2011
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Fanno cagnara, mentre il mondo va in fiamme. Molto concentrati a sviscerare fino al parossismo e al disgusto vicende nostrane, non si accorgono che il mondo sta cambiando. Questi sono sembrati i nostri media nelle ultime settimane. Come se un certo gusto per il polverone, per il battibecco continuo avesse oscurato il mondo, che intanto stava drammaticamente cambiando. Alla fine, i grandi mutamenti del Nord Africa, dell’Egitto hanno guadagnato di forza l’onore delle cronache principali. Il mondo che grida è riuscito a farsi sentire in mezzo a pettegolezzi e intercettazioni, in mezzo a battibecchi che chiamano politica e invece ormai non si sa più come chiamare. Troppo spesso un giornalismo che chiamiamo "urlato"  perché alza inutilmente i toni copre il grido (o il canto) vero del mondo. Il capo dello Stato, ieri, ce lo ha ricordato assai bene, con il concetto prezioso, forse abusato ma certo poco usato di «responsabilità». Non si tratta solo di una questione di stile. Ed è banale invocare lo "stile" quando si fa uso di termini volgari, di parole ignominiose e di bassezze per provare a dar sapore a una prosa altrimenti povera, esausta. Non si tratta di fare un giornalismo di un tipo o di un altro. C’è un modo che copre, censura i problemi veri del mondo (e del nostro Paese) dietro una cortina di mezze notizie, di voci, di schiamazzi.Non tutti i giornali e i media sono così, ma tutti – e non ci mettiamo certo in cattedra – rischiamo di perdere di vista il mondo, troppo occupati a rovistare nelle frattaglie. Quando poi il mondo, per la evidente forza dei suoi drammi come delle sue speranze, in Egitto o in tante parti d’Italia, chiede la parola, chiede attenzione, trova spesso i media distratti, o impreparati. E trova spesso i lettori ormai distanti, o disgustati. Coloro che guardano tv e giornali lo fanno spesso perché vogliono sapere, vogliono capire. Non è vero che al pubblico piace pascersi di frivolezze. O almeno non nella misura in cui i media nostrani (non tutti) si prodigano a offrire. Il piatto apparentemente forte di un giornalismo tutto grida e scandali finisce per stancare presto. E non è un buon servizio né ai cittadini e nemmeno alle imprese giornalistiche e di media. C’è in tutti noi, per quanto sepolta da pigrizie e abitudini, una innata voglia di capire, di vedere il reale. Di viverlo intensamente. I media dovrebbero essere un aiuto all’occhio e al cuore, per vedere e per sentire di più il mondo. Non per opacizzarlo. Non per renderlo meno interessante, meno drammatico, meno avventuroso. Il distacco o addirittura il disgusto con cui molti guardano alla vita pubblica è in parte dovuto anche a una irresponsabile rappresentazione che se ne fa. Una irresponsabilità che si somma certo a quella di tanti esponenti pubblici, politici amministratori e altri che provvedono ad avvilire il già stremato cuore di tanti in mezzo a una vita grama o difficoltosa.Ma i media possono, se vogliono, opporre alla irresponsabilità di tanti, il racconto della responsabilità di tantissimi, ed esercitare la propria, con senso critico e apertura, senza facili brodaglie servite, che paiono saporose e invece diventano insipide dopo pochi giorni. Se diventa consuetudine trattare tutto in modo "vile" , il mondo non ci apparirà più nello splendore tremendo e affascinate dei suoi drammi e dei suoi tesori. Tutto sembrerà ridotto a confusa poltiglia, su cui gettare uno sguardo distratto e opaco. Non ci stancheremo di ripeterlo, prima di tutto a noi stessi. Le parole con cui si descrive il mondo e la vita pubblica sono il segno di ciò che si guarda, sono il segno dell’orizzonte che si ha negli occhi e nel cuore.Ridurre il racconto del mondo a poche banali cose è una colpa grave. Verso il mondo, che grida e piange e lotta. E verso i lettori, che prima o poi a questo modo di fare voltano le spalle, per insofferenza o noia. E se i media finiscono per comunicare noia nel descrivere la vita del mondo, allora significa che hanno proprio fallito.
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