Trump e l'uso della morte del nemico
martedì 29 ottobre 2019

È paradossale: fin dalla prima comunicazione relativa alla eliminazione del leader del Daesh al-Baghdadi il presidente statunitense Donald Trump ha cercato di stabilire un robusto parallelismo con l’uccisione del leader di al-Qaeda Benladen, avvenuta durante la presidenza del suo detestato predecessore Barack Obama. Eppure proprio i registri comunicativi da lui stesso impostati rendono estremamente stridente, per non dire "sabotano", una simile analogia. Tanto Donald Trump ha scelto di usare toni estremamente violenti, umilianti e irriverenti nel trattare le ultime ore del sedicente califfo nero, quanto Barack Obama si era limitato a descrivere il successo di un’operazione che rappresentava il culmine di una vasta, paziente e tenace strategia volta ad assicurare alla giustizia o a rendere inoffensivo l’allora "most wanted", il numero 1 dei ricercati della storia degli Stati Uniti d’America.

È importante sottolineare che lo scherno che il presidente americano ha voluto impiegare nel trattare la morte di al-Baghdadi, la violenza verbale da "curva sud" cui ha deciso di conformare tutta la sua comunicazione (si pensi all’ostentato richiamo ai cani, che inseguivano il terrorista, alla sua morte "da cane") rischiano di offendere la sensibilità di moltissimi credenti musulmani, lontanissimi dalle suggestioni e dalle tesi del Daesh, ma che possono sentire nel disprezzo ostentato da Trump un più generale dileggio per alcuni temi della loro cultura e della loro religione. Non solo. Per tutti quelli che volevano "onorare" al-Baghdadi mentre era vivo seminando morte e distruzione, il dileggio del loro "martire" costituirà un motivo in più per ammazzare in suo nome. Per cui l’effetto positivo raggiunto di destabilizzare l’organizzazione del Daesh potrebbe essere più che compensato da quello negativo di motivare i suoi emuli sparsi sul pianeta.

Potremmo chiudere qui e considerare che si tratti dell’ennesima manifestazione della "follia di re Giorgio", di un presidente pericolosamente incompetente e palesemente inadeguato al ruolo (altro che il Berlusconi "unfit" di una lontana copertina dell’"Economist"). Ma invece è proprio nella scelta dei registri comunicativi che si capiscono i veri obiettivi e il vero target di Trump.

Che non sono né la lotta al terrorismo né la società civile internazionale e men che meno quelle opinioni pubbliche del mondo musulmano cui mira invece da sempre il messaggio dell’islamismo radicale. Trump parla alla 'sua' tribù, per ragioni di mera politica elettorale, per rinforzarne la coesione interna esibendo un hostis – un nemico – che va ben al di là delle formazioni terroristiche. La morte di un esponente del radicalismo violento islamista è utilizzata per chiamare a raccolta un radicalismo (neo)conservatore che strizza l’occhio al suprematismo bianco, che evoca il muro contro muro, che sia sul confine del Messico o del Nuovo Messico ( sic). Se questo è l’obiettivo e se il target sono i suoi potenziali elettori, offendere la sensibilità di qualche centinaio di milioni di musulmani nel mondo val bene la pena.

L’enfasi posta sulla morte di al-Baghdadi come passaggio finale dello scontro contro il Daesh svela con molta chiarezza anche il tentativo di uscire dalle secche delle critiche, durissime, nei confronti della sua politica siriana e più ampiamente mediorientale. Ma l’uscita di scena del 'califfo' non può tramutare in successo una serie di fallimenti. E se è vero che già l’amministrazione Obama iniziò quel ritrinceramento che annunciava il progressivo disimpegno Usa nella regione, va anche sottolineato con vigore che il presidente Obama non lesinò critiche anche dure a Israele e Arabia Saudita (gli Stati cui Trump ha appaltato la politica mediorientale di Washington), impose con il dialogo, il multilateralismo e la fermezza uno stop verificabile internazionalmente al programma nucleare iraniano, prese le distanze dalla deriva autoritaria, sanguinaria e megalomane della Turchia di Erdogan.

Certo, fu timido con la Russia e con il suo cliente siriano: ma almeno non ne ratificò la vittoria come invece ha fatto Trump, facendo del valoroso popolo curdo l’agnello sacrificale dell’accordo. L’America di Trump si muove esibendo disprezzo per 'i vinti', gli alleati locali (i curdi, appunto) e quelli storici (gli europei che, è vero, non si sono impegnati abbastanza contro il Daesh) e mostrando di rispettare solo la forza e la legge della jungla. Nella convinzione, nell’illusione, di essere talmente potente da non dover avere bisogno di nessuno. Al resto del mondo lascia le macerie di uno sforzo ormai secolare di costruire una società globale in cui la forza non costituisca l’unica ragione. Al suo popolo regala una solitudine senza pari, foriera di continue, crescenti minacce.

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