mercoledì 3 aprile 2019
Stupri e femminicidi: una serie di verdetti fa temere il ritorno di una cultura che minimizza o giustifica atti gravissimi Non si può generalizzare, ma il rischio c’è
La stazione della Circumvesuviana di San Giorgio a Cremano dove una ragazza è stata violentata in un ascensore

La stazione della Circumvesuviana di San Giorgio a Cremano dove una ragazza è stata violentata in un ascensore

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Da Napoli ad Ancona, da Genova a Bologna a Messina i giudici si sono pronunciati alimentando preoccupazioni comprensibili. Ma servirebbe uno sforzo di discernimento ulteriore Un problema nasce dal 'premio' che viene dato per i reati di qualunque tipo a chiunque chieda il rito 'abbreviato'

Due dei tre indagati per uno stupro che sarebbe avvenuto in un ascensore della Circumvesuviana sono stati scarcerati, e ciò ha riattizzato il fuoco di polemiche già esplose in seguito ad altre decisioni giudiziarie recenti: l’assoluzione pronunciata dalla Corte di appello di Ancona nei confronti di un altro accusato di violenza sessuale; la condanna inflitta, rispettivamente a Genova e a Bologna, a due imputati di femminicidio, in entrambi i casi con una pena da molti ritenuta troppo lieve (16 anni di reclusione); la revoca, da parte della Corte d’appello di Messina, del risarcimento accordato in primo grado a dei bambini resi orfani da un uxoricidio, i cui legali contestavano ad altri magistrati una responsabilità civile da inerzia per aver trascurato le ripetute denunce presentate contro il marito dalla donna che poi quest’ultimo finì per uccidere. Ad accomunare tutti questi eventi, i sintomi, che vi sono stati letti, della reviviscenza di una 'cultura' tesa a minimizzare o addirittura a giustificare fatti gravissimi se compiuti su donne, non importa se mogli, compagne o partner occasionali.

Critiche e preoccupazioni sono più che comprensibili e in larga misura condivisibili. Forse, però, non è inopportuno uno sforzo di discernimento ulteriore, che cerchi di superare la scorza delle generalizzazioni, le quali possono nascondere, sotto slogan di facile presa, il rischio di approssimazioni o di fraintendimenti. Nel gruppo delle sentenze che direttamente o indirettamente hanno avuto a che fare con eventi mortali, a lasciarmi più sconcertato è quella della Corte di Messina. Più che la conclusione cui essa è pervenuta – certo, amaramente tangibile anche materialmente, per chi l’ha subìta – ad inquietarmi sono però alcuni passaggi della motivazione che dovrebbe sorreggerla. Desolante, il messaggio che ne traspare: l’esito letale della vicenda sarebbe stato inevitabile, se pur gli apparati istituzionali si fossero attivati per rispondere concretamente alla dozzina di denunce per maltrattamenti e minacce presentate invece invano dalla donna poi uccisa dal marito. Bella iniezione di fiducia! E non solo per i ragazzi che hanno perso tragicamente, e a un tempo, madre e padre, e che si sentono invitati, come si suol dire, a farsene una ragione alla svelta.

Più complessa la questione del cosiddetto 'dimezzamento' delle pene inflitte agli altri due colpevoli di femminicidio. In realtà, di dimezzamento (o quasi) si dovrebbe parlare solo per il caso di Bologna, dove in effetti la Corte di assise di appello ha parzialmente riformato una condanna a trent'anni inflitta in primo grado da un giudice del Tribunale di Rimini; nel caso di Genova, invece, la condanna a una pena più elevata non si leggeva in alcuna sentenza anteriore; risultava soltanto oggetto di una richiesta dell’accusa, che non è la stessa cosa. Sia come sia, ciò che più rileva è che la grande maggioranza dei media, ma anche di coloro che si esprimono sulla rete nonché dei politici dell’intero arco parlamentare, avrebbe preteso sanzioni ben più pesanti (si è spinto più in là, ma non da solo, il Ministro dell’interno, perentorio nell'affermare che i colpevoli di crimini siffatti devono 'marcire in carcere': ancora una volta sottintesa, una sua personale interpretazione dell’articolo 27 della Costituzione, nel quale sta scritto che le pene – senza eccezioni e, dunque, anche quando si applicano ai peggiori delinquenti – «non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità...»).

Era legittimo, comunque, aspettarsi, per fatti del genere, una risposta sanzionatoria che non si prestasse ad equivoci quanto a severità, in linea con gli intendimenti delle norme repressive delle estreme violenze sulle donne. E neppure io sono sicuro che quelle inflitte nei casi in questione siano pene davvero adeguate. Né mi convince appieno l’impiego, a sostegno di un’indulgenza elargita in modo assai consistente, di qualche categoria concettuale, pur non ignota alla psichiatria forense; e in particolare mi riferisco alla sottolineatura della 'tempesta emotiva' cagionata dal sospetto (peraltro, a quanto pare, infondato) di un tradimento amoroso, che ha contribuito a far concedere all'imputato del processo d’appello di Bologna le cosiddette 'attenuanti generiche'. Tuttavia, non ritengo di possedere, dall'esterno del processo, piena cognizione di causa circa le modalità e i contesti dei fatti per inoltrarmi nei meandri di un bilanciamento tra quelle che sono tecnicamente definite 'circostanze del reato', quale non poteva non imporsi in ambedue i casi, pur assai diversificati tra loro se si mettono a confronto le descrizioni che se ne leggono nelle rispettive sentenze. Semmai, è giocoforza constatare che ormai quel bilanciamento finisce spesso per essere notevolmente alterato, in definitiva, dal consistente 'premio' che per legge viene dato automaticamente per i reati di qualunque tipo – e questo, sì, è davvero discutibile – a chiunque chieda di essere giudicato con il rito 'abbreviato'. D’altro canto, non mi sembra accettabile il presunto dogma secondo cui il femminicidio – a differenza degli altri reati, compreso il comune omicidio – non potrebbe mai ammettere attenuanti. E comunque, andiamoci piano prima di dire che a Genova come a Bologna i giudici hanno 'giustificato' quegli assassini. Non sono uno scherzo sedici anni di reclusione, sia pure ad ammettere che nel corso dell’esecuzione possano aversi, dopo un tempo non piccolissimo e a certe condizioni, mitigazioni e sconti. Insomma, non sono una pena talmente irrisoria e vicina all’impunità da far rivivere davvero il famigerato 'delitto d’onore' che rimase nella nostra legislazione fino al 1981 – insieme a quell'altra ignominia che era costituita dal 'matrimonio riparatore' offerto alle donne violentate – facendo sì che una fucilata o delle coltellate assassine venissero trattate come bagatelle e contemporaneamente costituissero vanto per il maschio padrone e vindice, ammirato per aver messo a tacere una femmina alla quale 'ben le stava'.

Ancora diverse le considerazioni che si possono fare circa i casi di stupro portati o riportati in queste settimane sotto i riflettori della cronaca giudiziaria. Sulle scarcerazioni dei giovani denunciati a Napoli è d’obbligo una sospensione del giudizio, almeno fino a quando non si conosceranno le motivazioni delle rispettive ordinanze. Certamente, però, i componenti del tribunale partenopeo, chiamato in causa dalle istanze difensive di 'riesame' delle misure adottate dal g.i.p., non possono non sapere che anche per la Corte costituzionale, quando una persona sia gravemente indiziata di violenza sessuale, è normale che essa rimanga in carcere in attesa del processo, salvo che i pericoli di inquinamento delle prove, di fuga o di reiterazione del reato risultino o totalmente inconsistenti o così tenui da rendere sufficiente una misura cautelare meno invasiva (eventualità che, se quegli indizi fossero confermati, si stenta a ritenere immaginabili). Dunque, le motivazione faranno leva su una carenza (non necessariamente dell’inesistenza) di gravi indizi a carico degli indagati? Vale pure qui la premessa circa la difficoltà di soppesare dall'esterno i pro e i contro. Una speranza – che fino a prova contraria si deve dare per certezza – si può però esprimere: che la valutazione si fondi su solide basi oggettive, e non su mere illazioni desunte da ipotetiche défaillances della personalità della denunciante, sulle quali sono sorprendentemente circolate voci maliziose, quasi a voler dare per scontata una sua attitudine a fantasticare o a far passare per frutto di violenza un rapporto sessuale che sarebbe invece stato consensuale.

Purtroppo qualcosa del genere sembra essersi verificato a suo tempo nell'altro caso, quello dei fatti giudicati ad Ancona, anche se la Corte di cassazione ha già riportato le cose a posto annullando la sentenza d’appello con rinvio ad altro giudice per un nuovo giudizio. Ma lì non si era trattato soltanto di una utilizzazione più che discutibile dei comuni strumenti probatori e logici posti a servizio del giudice in vista del formarsi di un corretto convincimento. La non-chalance dell’attribuzione della qualifica di 'brutta' a una persona, che non deve suscitare scandalo quando si parla tra amici e amiche o si commentano le fattezze di una star del cinema, andrebbe assolutamente evitata quando, in un atto importante e solenne come una decisione giudiziale, si discetta della credibilità di una persona già sottoposta all'angoscia del processo e di ciò che l’ha preceduto.

Professore emerito all’Università di Torino

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