martedì 6 marzo 2012
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Da quando la brutta vicenda che ha coinvolto il ma­resciallo Massimiliano Latorre e il sergente Salvatore Girone ha preso avvio, abbiamo assistito al puntuale rea­lizzarsi delle più fosche previsioni. Una volta che la pe­troliera italiana è stata attirata a terra con l’inganno (ol­tre che grazie alla colpevole negligenza del comandan­te e dell’armatore, ai quali dovrà pur essere chiesto con­to del proprio operato), i due fucilieri del Reggimento San Marco sono stati interrogati, quindi trattenuti, poi fermati e ora arrestati e spediti in carcere. Il governo italiano, probabilmente nella consapevolez­za delle poche contromisure concrete a disposizione, ha deciso di perseguire la via del dialogo e del basso profi­lo. Alla luce degli sviluppi della situazione, però, non vor­remmo che, così facendo, abbia involontariamente con­corso a consentire una duplice erronea interpretazione delle proprie scelte. Da un lato, si è lasciato che l’opi­nione pubblica italiana si cullasse nell’illusione che, die­tro le quinte, una soluzione fosse a portata di mano e che non fosse il caso di cercare il suo sostegno attivo a favore della liberazione dei due marò. Dall’altro, le au­torità politiche e giudiziarie indiane possono essere sta­te indotte a credere che con Roma fosse possibile pren­dersi quelle libertà che con altri sarebbero state sempli­cemente inimmaginabili. Bene ha, dunque, fatto la Farnesina ad assumere una po­sizione severa, con una nota ufficiale consegnata all’in­caricato d’affari indiano a Roma, che definisce «inaccet­tabile » l’incarcerazione dei due nostri connazionali. Lo scopo è avvisare l’India che si è andati oltre il tollerabile e che scambiare la disponibilità italiana al dialogo per ar­rendevolezza è un grave errore. Per chiamare le cose con il loro nome, il provvedimento adottato nei confronti dei due marò italiani, in spregio a ogni norma di diritto in­ternazionale, si configura come un vero sequestro di per­sona, un atto di pirateria analogo a quelli che La Torre e Girone stavano contrastando. Anche se non possiamo e non dobbiamo dimenticare i due pescatori, vittime in­nocenti di un episodio ancora tutto da chiarire. È giunto quindi il momento di esercitare ogni forma di pressione possibile sull’India, affinché i due nostri con­nazionali siano riconsegnati alle autorità italiane, le so­le competenti a giudicarli. A tale scopo è opportuno, sempre che non sia già stato fatto, muoversi rapidamente per attivare la solidarietà di quei Paesi alleati che possa­no avere un’influenza maggiore della nostra presso il go­verno di Delhi. A cominciare dagli Usa, che da anni han­no dichiarato apertamente di voler fare dell’India «la Gran Bretagna dell’Asia», allo scopo di contenere la cre­scita di influenza cinese nella regione. Più in generale, bisognerebbe esplicitare in tutte le sedi internazionali possibili che un Paese come l’India, che si ritiene idoneo ad ambire un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu, deve saper nutrire e mo­strare maggior rispetto delle norme del diritto interna­zionale e maggior responsabilità nell’evitare di a­limentare l’isteria di un’opinione pubblica interna che dovrebbe avere ben altre preoccupazioni (cor­ruzione, nepotismo, violenza interetnica e interre­ligiosa, tradizioni discriminatorie) che non quella di mo­strare i muscoli nei confronti dell’Italia. Per quanto ri­guarda la nostra opinione pubblica, occorre che an­ch’essa si senta mobilitata nello sforzo di salvare La Tor­re e Girone, affinché sia chiaramente percepibile a Nuo­va Delhi come a chiunque, che questo è l’obiettivo con­diviso di tutto un Paese e non solo del governo e delle i­stituzioni. In una società aperta, d’altronde, non è certo il governo che può giocare la partita principale, ma piuttosto sono i media e la società civile, nelle loro molteplici articolazioni, che devono sentirsi impegnati e coinvolti. La mobilitazione dell’opinione pubblica italiana è stata richiesta e ottenuta per il salvataggio dei tanti cooperanti sequestrati in questi anni: dall’Iraq all’Afghanistan, dal Nordafrica allo Yemen. Per ragioni puramente umanitarie, essa diede il suo generoso sostegno perfino alla causa della liberazione del caporale israeliano Shalit, rapito dalle formazioni di Hamas, avvenuto nell’ambito di un rapporto di reciproca e aperta ostilità. Non è possibile che la vita del maresciallo La Torre e del sergente Girone per i nostri media, i nostri sindaci e i nostri maître-à­-penser valgano di meno. Senza verità sui fatti e senza rispetto della legge internazionale e del buon diritto non può esistere giustizia. Ed è giustizia quella che va fatta, non vendetta.
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