Utero in affitto, quei sì remissivi a leggi altrui
sabato 2 luglio 2016
​Gentile direttore,
leggo su “Avvenire” del 30 giugno l’articolo di Lucia Bellaspiga dove si ricorda che la legge 40 «vieta rigorosamente la pratica dell’utero in affitto», ma «solo quando è commesso in Italia» e dove si annota che nasce «da qui la propensione ad andare a fare all’estero ciò che da noi è illegale». Perché, spiega ancora la sua collega, «il procedimento penale in questi casi si può avviare solo su richiesta del Guardasigilli: secondo l’articolo 9 del Codice penale, infatti, se un cittadino italiano compie il reato all’estero, il colpevole è punito “a richiesta del ministro della Giustizia”». Leggo inoltre che «il Guardasigilli ha risposto che per sanzionare penalmente un fatto è necessario che sia considerato reato anche nel Paese in cui è stato commesso, e non solo in Italia...». In altri termini, e su un altro piano, si potrebbe concludere che se un cittadino italiano contrae matrimonio all’estero secondo una legge che prevede e consente la poligamia, questo fatto dev’essere necessariamente non perseguito dalla legge italiana, che la poligamia vieta esplicitamente, e che dunque dobbiamo accettare sul nostro territorio nazionale gli esiti di qualsiasi legge che contravvenga al nostro ordinamento, purché essa sia vigente in un altro Paese? Allora qual è la legge vigente sul territorio nazionale, la nostra o quella di un altro Stato? Non stiamo forse uccidendo la nostra sovranità, aprendo la porta a qualsiasi illegalità?

Rosaria Faretina



La questione che lei torna a porre, gentile signora Faretina, è molto grave e seria e, non a caso, è stata sollevata con crescente allarme. Sono anche altri i motivi che hanno portato alla piccola e inquietante serie di decisioni di legalizzazione per sentenza di pratiche esplicitamente vietate dalla legge italiana come la disumana e disumanizzante maternità surrogata, ma questo particolare eccesso di adesione alla quantomeno controversa legalità altrui, che la collega Bellaspiga ha richiamato nell’articolo del 30 giugno scorso, dà pressante forza al suo interrogativo, gentile amica lettrice. Certi giudici e i legislatori silenti o acquiescenti dovrebbero rendersi conto della brutta e pesante china su cui ci stiamo incamminando con infelice leggerezza.
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