giovedì 17 dicembre 2015
​Una Messa pubblica e prima visita di vescovi dal 1953. Le aperture potrebbero essere mosse opportunistiche del regime.
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La Corte suprema nordcoreana ha condannato ieri ai lavori forzati a vita il pastore presbiteriano Hyeon Soo Lim, nato in Corea del Sud ma di cittadinanza canadese. Dopo l’arresto a febbraio, Lim aveva confessato pubblicamente i suoi «crimini contro lo Stato». Arrivato per svolgere attività umanitarie, come decine di altre volte dal 1997, il canadese avrebbe – per sua ammissione ripresa dall’agenzia ufficiale Kcna – raccolto informazioni da utilizzare all’estero per propiziare la fine del regime «con l’amore di Dio». Per molti, la Corea del Nord sotto l’attuale dittatura di Kim Jong-un è il Paese al mondo dove la cristianità è più repressa. Il governo mantiene assoluto controllo sulle attività religiose e perseguita chi pratica la fede cristiana al di fuori dei pochi ambiti ammessi. Eppure, anche da questa situazione disperata, emergono segnali di evoluzione. Sicuramente da esaminare anche alla luce delle necessità del regime guidato dal terzo erede dell’unica dinastia comunista della storia, ma tuttavia sono positivi e come tali interpretati dalla Chiesa cattolica coreana, che seppure con un’unica sede a Seul, ha tra statuto legale, volontà di dialogo e impegno di solidarietà una responsabilità che copre l’intera Penisola coreana.  Il 12 ottobre, preti sudcoreani hanno celebrato la Messa a Pyongang, nell’irreale cornice della 'cattedrale' di Changchung, unico luogo di culto cattolico ufficiale nel Paese. Comunque, una cerimonia centrale in quella che è stata la prima visita di sacerdoti cattolici dal 2008. Ancora di maggior rilievo, l’esperienza di quattro vescovi e 13 preti che, guidati dall’arcivescovo di Gwangju e presidente della Conferenza episcopale coreana monsignor Hyginus Kim Hee-joong, si sono recati al Nord dal 1° al 4 dicembre su invito dell’Associazione cattolica coreana. In questo caso, la visita dei vescovi, la prima dalla fine del conflitto coreano nel 1953, potrebbe preludere un programma di visite regolari di clero del Sud a Nord del 38° parallelo prospettato alla fine del viaggio della delegazione già dalla prossima Pasqua. Tra le possibilità segnalate ai vescovi, maggiori iniziative di assistenza e forse anche un nuovo edificio di culto cattolico a Pyongyang, ma non la preparazione di sacerdoti nordcoreani, come chiarito dai vescovi. Perché questa apparente distensione?  La Chiesa della Corea del Sud sta incentivando l’impegno per la riconciliazione di un’unica nazione divisa dalla logica dei blocchi ideologici e delle superpotenze dopo un devastante conflitto durato dal 1950 al 1953. Tra le conseguenze, oltre alla divisione di centinaia di migliaia di famiglie, anche una Chiesa spezzata da un confine mai ufficializzato in mancanza di un trattato di pace, ma assai più costrittivo di qualunque atto legale o barriera fisica, per la volontà di isolamento e di controllo del regime nordcoreano. La cattolicità del Nord, fiorente in passato, ridotta a forse 50mila membri alla fine del conflitto, conterebbe oggi poche migliaia di aderenti ufficiali (3.000 sono quelli registrati per sua pretesa dall’Associazione cattolica coreana controllata dal potere politico e il cui ruolo è nella sostanza di incentivare e gestire gli aiuti destinati ai nordcoreani dai confratelli di fede). Le testimonianze, sia di visitatori, sia di cattolici in grado a volte di far sentire la loro voce oltreconfine, segnalano una attività comunitaria, ardua e perlopiù nascosta, ma anche un buon numero di battezzati tra gli almeno 150mila ospiti involontari dei campi di lavoro e di rieducazione, la cui condizione è alla base del dibattito in corso all’Onu sul deferimento del regime alla Corte penale internazionale dell’Aja.  La leadership del Nord prosegue infatti nella sua politica insieme provocatoria e opportunista. Essa utilizza anche la minaccia missilistica e nucleare non per ottenere concessioni – negate dal rifiuto di un dialogo costruttivo con la comunità internazionale e Seul –, bensì considerazione e aiuti economici. Rispetto al passato il regime deve inoltre giocare meglio carte secondarie ma di grande risalto mediatico: temporanee ricongiunzioni familiari; arresti, condanne e liberazioni di stranieri con motivazioni religiose e spionistiche; rapporti con la Chiesa cattolica che guardano fino a Roma e al prestigio diplomatico della Santa Sede, ma poco hanno a che vedere con una libertà di fede scritta nella Costituzione e negata nella pratica. La presenza formale di una cattolicità locale è ragione e pretesto per sollecitare aiuti e per tollerare la presenza di organizzazioni di soccorso cattolico nel Paese, inclusa la Caritas, e c’è chi ha da tempo raccolto la sfida.  Padre Gerard Hammond, attuale superiore regionale dei missionari di Maryknoll vive in Corea del Sud da 1960. Dal suo primo ingresso al Nord nel 1995 ha collezionato 51 viaggi oltreconfine. L’81enne missionario si considera una 'apostolo di pace e di speranza' e le sue esperienze non hanno il senso dell’evangelizzazione ma dell’assistenza umanitaria: un tempo soprattutto invio di cibo, ora medicinali per gli ammalati di tubercolosi. «Nessuno nega la povertà del Nord», segnala. Ricorda però anche che la situazione della Corea del Sud che si trovò davanti 54 anni fa non era migliore, con «migliaia di profughi, ponti crollati, strade in condizioni pessime, senz’acqua corrente». Se oggi la Corea del Sud è la 13ma economia mondiale con un Pil venti volte superiore di quello del Nord – ricorda ancora padre Hammond – un contributo lo ha dato anche la Chiesa, che ha giocato un ruolo primario nel movimento che ha portato alla fine dei regimi autoritari e a una democrazia compiuta. La linea della Chiesa cattolica coreana non è quella dell’ignavia o dell’ottimismo forzato, ma quella espressa da papa Bergoglio durante la Messa che ha celebrato durante la sua visita al Sud dal 14 al 18 agosto 2014. Una Messa dedicata espressamente alla riconciliazione in cui ha richiamato al principio che «tutti i coreani sono fratelli e sorelle, membri di una sola famiglia, di un solo popolo». Nessun accenno di carattere politico, nessuna menzione dell’oppressione subita dalla cattolicità nordcoreana. Fede e riconciliazione al centro, sfide e opportunità per una Chiesa che è parte integrante della nazione coreana. Come sottolineato da padre Timothy Lee Eun-hyung, segretario del Comitato per la Riconciliazione del popolo coreano, «dobbiamo consolidare la piattaforma per la riconciliazione intensificando scambi e collaborazione. I coreani di oggi possono focalizzare sul futuro, ma vediamo che i giovani rischiano di diventare indifferenti verso un passato che non hanno vissuto direttamente e c’è il rischio di una indifferenza crescente verso il desiderio di riunire i coreani». Per questo, ricorda ancora padre Lee, «occorre mettere da parte atteggiamenti aggressivi e camminare sul sentiero dell’inclusione, del perdono e della riconciliazione che anche papa Francesco ha ricordato quando è venuto in Corea».
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