sabato 6 giugno 2015
COMMENTA E CONDIVIDI
A Strasburgo s’è compiuto un altro passo indietro nella difesa della vita, e nel rispetto della dignità delle persone. Un passo che sceglie l’eutanasia come strada più semplice per risolvere i problemi della sofferenza, ma non vuole nemmeno chiamarla col suo nome. Così può essere sintetizzata la sentenza della Corte di Strasburgo di ieri che ha respinto il ricorso dei genitori di Vincent Lambert perché il figlio, in stato di coscienza minima da anni, continui ad essere curato, in particolare alimentato e curato come disabile. È opportuno chiarire che il caso Lambert solo in parte può essere assimilato al caso Englaro che si verificò in Italia negli anni scorsi, per alcune specificità: Lambert non è in coma, è in stato coscienziale molto limitato, ma reattivo ad alcuni stimoli esterni, e in assenza di una dichiarata volontà per il fine-vita è in atto una forte divisione familiare, essendo i genitori favorevoli alle cure e la moglie, mentre altri familiari vogliono interrompere il trattamento sanitario. Il caso Lambert è al centro di lunghe controversie giudiziarie, con sentenze di opposto segno, anche perché in Francia non esiste una legge che autorizzi l’eutanasia attiva, ma è tuttora vigente la Legge del 2005 che prevede, a certe condizioni, l’interruzione del trattamento sanitario e, come ogni legge, è soggetta a interpretazione. Però, la sentenza della Corte di Strasburgo, cui erano ricorsi i genitori di Lambert, sposta la questione su altro livello e segna una nuova tappa nell’involuzione della giurisprudenza europea su questioni che in passato erano state valutate in modo contraddittorio. Basterà ricordare che in una sentenza del 2002 la Corte esclude che l’articolo 2 della diritti Convenzione europea dei diritti dell’uomo comprenda il diritto della persona a decidere se vivere o meno, e l’obbligo dello Stato di tutelare tale diritto: quindi, il diritto alla vita è un valore da tutelare, non rovesciabile nel suo opposto secondo la tecnica giuridica dei diritti patrimoniali. In modo sorprendente, nella sentenza del 14 maggio 2013 la Corte di Strasburgo non solo cambia opinione, ma ritiene che «il diritto di un individuo a decidere il modo in cui e a quale punto la propria via deve finire (…) sia uno degli aspetti del diritto al rispetto per la propria vita privata». E chiede allo Stato convenuto (la Svizzera) di dotarsi di norme chiare per i casi in cui «un individuo è pervenuto a una decisione seria, nell’esercizio della sua libera volontà, di terminare la propria vita, ma in cui la morte non è imminente né causata da specifica malattia». Insomma una pronuncia che, opponendosi alla prima, apre la porta al suicidio assistito perché correlato al diritto alla vita della Convenzione europea del 1950. La sentenza di oggi, che ripercorre il lungo cammino della vicenda Lambert, è più sofferta, approvata a maggioranza, è in difficoltà nel giustificare le proprie conclusioni. Essa afferma in primo luogo che la questione in discussione non è «quella dell’eutanasia, ma dell’arresto del trattamento sanitario che mantiene artificialmente in vita» l’interessato. Aggiunge, evocando una precedente pronuncia che non si vuole «negare in alcun modo il carattere sacro della vita protetta dalla Convenzione», ma «la dignità e la libertà dell’uomo sono l’essenza stessa della Convenzione». Sono queste le affermazioni che preparano la decisione, ma celano una grande insidia: il carattere sacro della vita passa in secondo piano quando sono in gioco dignità e libertà, e dignità e libertà della persona sono valutati da persone che hanno opinioni diverse su tutto, e sono estranee all’interessato. Tant’è vero che la Corte afferma in un altro punto che occorre mantenere «un equilibrio tra la protezione del diritto alla vita del paziente e la protezione del diritto alla sua via privata e ala sua autonomia». Ecco il cuore del problema, già presente nella sentenza del 2013 relativa all’ipotesi suicidaria: la vita e la morte sono questioni private, lo Stato non è chiamato a tutelare un valore anziché un altro; il contrario rispetto alle precedenti posizioni della Corte, il silenzio al posto della solidarietà. Per il resto, la sentenza si limita a sostenere che la procedura legale seguita ha rispettato la legge francese, e ciò consente senza entrare nel merito di respingere il ricorso dei genitori di Lambert. L’opinione dissenziente di 5 giudici demolisce la sostanza della sentenza, ma soprattutto toglie il velo di ipocrisia che la avvolge, quando afferma che i diritti fondamentali non implicano l’esistenza di diritti opposti: infatti, l’articolo 2 della Convenzione tutela «il diritto alla vita ma non il diritto a morire», come l’articolo 3 garantisce il diritto contro trattamenti malvagi ma non contempla il diritto «a rinunciare a essere colpito, torturato o affamato sino alla morte». E ribadisce che il caso in questione è un caso di eutanasia, nel quale però non si vuole pronunciare questa parola. È questo il problema che l’Europa e tutti noi abbiamo davanti: il problema di scelte in ambito etico, decisive per la persona, introdotte con una giurisprudenza contraddittoria, ambigua; la quale di rinvio in rinvio - ai giudici nazionali quando torna utile, alla Convenzione europea riveduta e corretta se sembra meglio - decide con molto arbitrio su questioni che investono i contenuti dell’umanesimo solidale di una società come quella che vogliamo costruire.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: