sabato 20 dicembre 2008
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La complessa situazione personale in cui si trova a vivere la giovane donna di Lecco ed il dramma umano, medico e giuridico che la circonda hanno portato alla luce, dinnanzi agli occhi di tutti, quanto profondi siano i mutamenti che la medicina contemporanea ha introdotto in alcune circostanze della nostra esistenza. Una condizione come quella in cui versa Eluana era inimmaginabile prima dell'introduzione e della diffusione della nutrizione clinica negli ultimi decenni del novecento. Come sempre è accaduto nella storia delle tecniche e delle tecnologie che espandono il potere di intervento dell'uomo sulla vita e nel mondo, nuove opportunità fanno sorgere imprevedibili domande etiche e questioni giuridiche. La nostra libertà, e, dunque, la nostra responsabilità, è provocata a prendere posizione. Ciò che, a partire dalle tragedie belliche e totalitarie del secolo scorso, era diventato moralmente palese e socialmente condiviso " privare intenzionalmente una persona dell'acqua e del cibo per farla morire è un gesto che ripugna alla coscienza individuale e civile " ora appare circondato da un'aurea nebulosa prodotta dal riverbero della complessità delle cure che un paziente riceve in talune condizioni cliniche. Una nebbia della coscienza e della giurisprudenza dalla quale è possibile uscire grazie ad un esercizio della ragione, l'unica risorsa umana capace di purificare l'istintività delle reazioni immediate, scavalcare il "pre-giudizio" ideologico ed allargare gli orizzonti dell'intelligenza politica. La ragione (non il "credo" religioso o le "fedi" laiche) mostra che l'atto di nutrire una donna o un uomo " qualunque sia la "forma" del cibo e la "via" della sua somministrazione che sono richieste dalle circostanze individuali " è un gesto di solidarietà, non di ostilità, di condivisione di un bisogno fondamentale, non di aggressione, di tutela della vita del cittadino colpito da una fragilità o indigenza, non di prevaricazione nei suoi confronti. Ci può esonerare dal dovere personale e sociale di fornire acqua e nutrienti solo la ragionevole certezza che queste non siano di utilità per la vita di chi le riceve, a motivo del fatto che il suo organismo non è più in grado di assorbirle o metabolizzarle e, di conseguenza, sostenere attraverso di esse i processi fisiologici essenziali per l'integrazione ed il coordinamento delle funzioni fondamentali del corpo. Nessuno è tenuto a compiere gesti futili: ad inutilia lex non cogit. Ma questo non è il caso di Eluana e dei pazienti in stato vegetativo che si trovano nelle sue stesse condizioni. Assimilare queste persone a pazienti sottoposti ad un "accanimento terapeutico" (cosa in sé sempre deprecabile) sarebbe un errore di coscienza, un errore giudiziario e un errore politico. Per evitare che possano accadere in futuro simili errori giudiziari, la legge che il Parlamento italiano si appresta a discutere non potrà essere, su questo punto, elusiva o generica. La rinuncia ad un intervento farmacologico, chirurgico, radioterapico o di altra natura terapeutica rientra tra i doveri del medico che si trova di fronte ad un rifiuto consapevole e motivato da parte del paziente o di chi ne fa le veci, essendo il consenso informato un presupposto inalienabile per ogni atto compiuto dal personale sanitario sul corpo del malato. Non così, invece, deve essere disciplinata la cura del paziente incapace di nutrirsi da solo, al quale vanno somministrate acqua ed alimentazione, anche per via entrale o parenterale, nella misura in cui esse risultano essenziali per il mantenimento dell'omeostasi corporea e, dunque, per la sua vita. In ogni singolo caso, la valutazione dell'efficacia ed indispensabilità della nutrizione clinica spetta ad una équipe di medici, con competenza specialistica adeguata, cui le norme affideranno questo compito. Una legge che regolamenti questa delicata materia è stata invocata da più parti per colmare una lacuna nell'ordinamento giuridico del nostro Paese che si presta ad usi ed abusi di potestà private e pubbliche. Ma per prevenire questo occorre che la legge sia lucida e puntuale nel distinguere interventi obiettivamente diversi e nell'assegnare il ruolo decisionale proprio di ciascun soggetto che entra nel disciplinare la relazione tra il malato e chi lo assiste.
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