sabato 8 ottobre 2011
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I verdetti della commissione che assegna i premi Nobel per la Pace fanno quasi sempre discutere. Barack Obama, premiato nel 2009, l’aveva appena ritirato quando decise di inviare altri 30mila soldati in Afghanistan. L’Ippc (Comitato intergovernativo per il cambiamento climatico), che lo ebbe nel 2007, poco dopo fu accusato (e con qualche ragione) di aver alterato i dati della ricerca. Il banchiere Muhammed Yunus (2006) ha poi avuto le sue belle grane e Mohammed al–Baradei, direttore dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica, Nobel nel 2005, era stato trattato per anni da “quinta colonna” del nemico per non aver voluto riconoscere la presenza di armi atomiche in Iraq.Anche oggi, dunque, possiamo discutere se Ellen–Johnson Sirleaf, presidentessa della Liberia, meriti fino in fondo il riconoscimento, o almeno tanto quanto la connazionale Leymah Gbowee, la militante nonviolenta che organizzò la protesta delle donne contro la guerra. Possiamo valutare se l’assegnazione del premio alla Sirleaf proprio mentre in Liberia la campagna per le elezioni presidenziali è agli sgoccioli, con la premiata in corsa per un secondo mandato, non si risolva in una pesante ingerenza politica. E non rischi di creare nuovi conflitti proprio in quel lembo d’Africa, dove la pace è stata conquistata, e non da molto, a carissimo prezzo. Ed è lecito chiedersi se Tawakkul Karman, la giornalista dello Yemen che anima l’opposizione femminile al dittatore Ali Abdallah Saleh, non rischi di trasferire il proprio prestigio libertario al partito radicale islamico al–Islah di cui è esponente, e che tanto libertario non sembra. È indiscutibile, però, una cosa importante. Il Nobel per la Pace di quest’anno porta sotto i riflettori in modo inequivocabile la questione femminile, uno degli snodi cruciali del presente e del futuro sia in Medio Oriente sia in Africa.L’esempio della Karman può essere importante, e non solo nello Yemen. È vero, nel suo Paese le donne non possono votare né guidare né andare da sole a dormire in un albergo. E quando Amat al–Alim Alsoswa, anche lei giornalista, divenne ministro dei Diritti Umani, i partiti islamici (compreso al–Islah, quello in cui anche Tawakkul milita) organizzarono una specie di boicottaggio e alcuni sceicchi emisero una fatwa. Il lavoro, quindi, non manca. Ma appena oltre confine c’è l’Arabia Saudita, dov’è stata festeggiata come una mezza rivoluzione la decisione di concedere alle donne il diritto di voto, anche se solo a partire dal 2015 e solo per i Consigli locali. Poco più in là il Kuwait, dove il diritto di voto è stato concesso alle donne solo nel 2005. E tutto intorno una regione in cui le donne sono il 58% dei laureati ma solo il 14% della forza lavoro.Analogo è il discorso che si può fare per l’Africa. Secondo recenti studi dell’Ocse, le donne africane formano il 70% della forza lavoro impiegata in agricoltura e sono direttamente responsabili del 90% del cibo prodotto nel continente. Ma solo l’8,5% (il dato più basso tra tutte le regioni del mondo) di loro riesce a ottenere un lavoro salariato fuori dai campi o un posto di responsabilità. Solo il 51% delle donne africane sopra i 15 anni d’età sa leggere e il 30% di loro all’età di 20 anni è già stata sposata almeno una volta.Sia l’Africa sia il Medio Oriente hanno bisogno di liberare l’immenso patrimonio di energie intellettuali, economiche e anche spirituali che finora è rimasto confinato nel recinto delle tradizioni, delle discriminazioni di genere e dei soprusi. Questo premio Nobel “al femminile” giunge quindi a proposito, in una fase di rivolgimenti e sviluppi che già incidono profondamente nella realtà di tanti Paesi. Per una volta, quindi, dubbi e discussioni sulle decisioni di Oslo possono aspettare.
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