giovedì 17 luglio 2014
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​A poco più di un anno dalla pubblicazione dell’enciclica Lumen fidei di Papa Francesco, scritta con la cospicua collaborazione di Benedetto XVI, è importante soffermarsi su un suo punto centrale, che da molti secoli e tutt’oggi è molto spesso incompreso, anche dagli stessi credenti. Infatti, nel corso della modernità (a parte alcune eccezioni) la fede è stata progressivamente intesa «come un salto nel vuoto che compiamo per mancanza di luce, spinti da un sentimento cieco; o come una luce soggettiva, capace forse di riscaldare il cuore, di portare una consolazione privata, ma che non può proporsi agli altri come luce oggettiva e comune». Non è possibile ripercorrere qui le molteplici cause di questa convinzione: bisognerebbe focalizzare il nominalismo tardomedievale, l’influsso luterano, il Romanticismo, la reazione all’idealismo, e così via, per poi tematizzare l’odierno relativismo – di cui, beninteso, si danno svariate forme – su cui Francesco si è criticamente soffermato varie volte, nel solco del predecessore.Di fatto, in un simile quadro culturale relativista, «si tende spesso ad accettare come verità solo […] ciò che l’uomo riesce a costruire e misurare con la sua scienza»; per tutto il resto ci sarebbero esclusivamente le verità valide per l’individuo. È perciò urgente e cruciale recuperare il carattere veritativo della fede, come luce capace di illuminare l’intera esistenza di qualsiasi uomo, luce che è così potente perché proviene dall’Onnipotente: nella relazione vitale con Dio possiamo ottenere una conoscenza – non esaustiva, ma comunque inestimabile – sul mondo, su noi stessi, sul senso della vita di ogni uomo. Infatti, la fede non solo guarda a Cristo, ma guarda in qualche misura con i suoi occhi, che hanno uno sguardo oggettivo. E come in tanti ambiti dell’esistenza ci fidiamo di qualcuno che riteniamo af-fidabile (il professionista, l’amico, il maestro, ecc.), così abbiamo bisogno di Qualcuno che sia af-fidabile sulle questioni radicali per ogni uomo: qual è la mia origine? Qual è il senso della vita? Esiste una vita dopo la morte biologica? Perché la sofferenza?. Sono domande a cui la filosofia dà alcune risposte, ma – come già diceva Platone – la fede in una divina Rivelazione può offrire un preziosissimo incremento di comprensione.Ora, l’atto di fede non è esclusivamente né principalmente un fatto emozionale, bensì è l’atto di una «ragione credente» (Lumen fidei, 27) che ritiene vere le affermazioni della Rivelazione perché ritiene af-fidabile il Dio rivelante, sulla base di diversi motivi di credibilità su cui non è qui possibile soffermarsi: basti solo accennare che nel processo di conferma dell’oggettività della verità della Rivelazione è da quasi duemila anni impegnata la tradizione filosofica metafisica, che in vari momenti ha argomentato razionalmente diverse affermazioni della Rivelazione stessa. L’incontro del cristianesimo con la filosofia fu «un passaggio decisivo affinché il Vangelo arrivasse a tutti i popoli e favorì una feconda interazione tra fede e ragione», tema su cui Giovanni Paolo II ha scritto un’enciclica apposita.Dicevamo che la fede guarda oggettivamente, in qualche misura con gli occhi di Dio. Infatti, essa non è cieco sentimento d’amore: è in simbiosi con l’amore per Dio, ma il vero amore non è cieco, in quanto coinvolge sì la nostra affettività, ma è un andare verso l’altro che è «esperienza di verità» e «apre i nostri occhi per vedere tutta la realtà in modo nuovo, in unione con la persona amata»: un’unione che per il credente è con la Persona massimamente amabile.
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