venerdì 11 giugno 2010
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Questa volta l’ultimatum lo danno il Mezzogiorno e il Paese intero: non c’è alternativa accettabile all’accordo, nel confronto tra Fiat e sindacati sullo stabilimento di Pomigliano d’Arco. Perché la posta in gioco è talmente alta da superare perfino gli interessi delle parti che siedono al tavolo del negoziato.Sul piatto ci sono – e non è poco – 700 milioni di euro di investimenti e il ritorno della produzione della Panda in Italia. C’è il mantenimento di 5mila posti di lavoro diretti e altri 10mila di indotto. Soprattutto, c’è il futuro di un territorio, nel quale la fabbrica un tempo dell’Alfa Romeo è l’unico fuoco attorno al quale può orbitare lo sviluppo, che garantisce un certo benessere e un orizzonte di relativa sicurezza. Privarsi di questa risorsa significherebbe probabilmente condannare un’ennesima porzione del nostro Sud all’assistenzialismo, in una lenta agonia fatta di cassa integrazione e mobilità. Fino ad esporre quella provincia al rischio di annoverare come prima industria quella della criminalità, la camorra come datore di lavoro principale.Al netto di qualche presa di posizione ideologica, questa consapevolezza sembra essere maturata nelle diverse organizzazioni sindacali. Tanto che sulle richieste di modifiche organizzative – la produzione su 18 turni a scorrimento, i sabati di straordinario da aumentare, la riduzione delle pause e lo spostamento della mensa – il confronto si è sviluppato, arrivando già a un tacito accordo. Faticoso, che richiede alcuni sacrifici ai lavoratori, ma alla fine accettabile e realizzabile. Dove invece la trattativa rischia di arenarsi è sulle materie che riguardano da un lato le punte di assenteismo, dall’altro le clausole di responsabilità, con le eventuali future proteste considerate come infrazioni disciplinari, passibili di sanzione per il singolo e per le sigle proponenti. Si tratta di problemi reali, che non possono, però, essere risolti chiedendo ai sindacati di derogare alle leggi dello Stato – al di fuori della loro disponibilità – o imponendo nello stabilimento napoletano regole che limitano i diritti costituzionali e ordinari.Su queste materie la Fiat sbaglierebbe a forzare. Soprattutto, dimostrerebbe di non essere coerente con il suo stesso progetto. Che non può realizzarsi "contro" qualcuno o qualcosa, ma solo coinvolgendo appieno tutti i soggetti, a partire dai lavoratori. Non si può far ripartire una fabbrica con un nuovo modo di lavorare, imponendo nel contempo un contratto vecchissimo stile. Non è stabilendo solo regole severe e sanzioni a raffica che si responsabilizzano le persone e le organizzazioni. «Per realizzare "Fabbrica Italia"», aveva spiegato lo stesso Sergio Marchionne presentando il progetto, «è necessaria la volontà da parte di tutti e l’apertura al cambiamento». E il cambiamento per essere solido non può che basarsi su un affidamento reciproco, su un nuovo patto di fiducia. Il passo in avanti che a ragione viene chiesto a lavoratori e organizzazioni sindacali va compiuto quindi anche nella cultura d’impresa, nelle relazioni industriali.Lo spazio per limare le posizioni e trovare un compromesso intelligente esiste. Va esplorato oggi, scongiurando qualsiasi ipotesi di rottura. L’ultimatum per la Fiat e i sindacati è suonato: non possiamo permetterci un fallimento. I lavoratori non lo meritano, l’intero Paese non lo capirebbe e meno ancora potrebbe accettarlo.
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