Dentro la nostra travolta normalità
giovedì 12 marzo 2020

Le nostre vite sono state travolte, le nostre abitudini, i piccoli grandi rituali, anche quella che sino a poche settimane fa consideravamo buona educazione. Tutto spazzato via. Sino a data da destinarsi. Sino alla data in cui torneremo a essere noi. Perché ora, così bloccati in casa, e parlo dei fortunati, facciamo fatica a riconoscerci. Perché, in fondo, la nostra stessa identità passava attraverso quel mare di gesti che ora non ci sono permessi.

Siamo tornati bambini, inesperti, impacciati di fronte alla lezione che dobbiamo imparare per forza, in premio non c’è il bel voto ma la salute nostra e dei nostri cari. Non si scherza. Sino a qualche giorno fa, per chi come me orbita attorno alla Capitale, resisteva l’ironia che ai romani non manca neanche in situazione come questa, si diceva: almeno è diminuito il traffico. Ed è vero, drammaticamente vero. Proprio al dannato traffico, a tutte le piccole grandi iatture cui siamo, anzi, eravamo sottoposti, proprio alla parte della nostra vita che sino a qualche giorno fa maledicevamo, oggi in tanti guardano con un filo di nostalgia. E d’amore.
Mai avrei pensato di dirlo. Mi manca il traffico pendolare, la fila al supermercato, il numeretto alla pizzeria sottocasa, la festa di compleanno di mio nipote.

Mi manca la normalità. Anche quella che prima di quest’emergenza detestavo con tutto me stesso. Perché in quelle ore apparentemente perse c’era comunque tanta vita altrui che entrava nella mia. E viceversa. Perché anche in quelle ore ero in possesso della mia libertà. Potevo abbracciare e baciare, stringere mani, potevo prendere un treno e andare a Milano, da tutti i miei amici lombardi che in questi momenti vivono la difficoltà più grande, e spaventosa.
Quanta meravigliosa normalità non sono riuscito ad amare. Ma siamo sicuri che il termine giusto sia normalità?
Oggi, con quello che stiamo vivendo, con quello che ancora ci aspetta, non riesco a definirla così. Perché è ingiusto, perché non è quella la parola per dire quello che realmente sento.

Quella era felicità. La mia. La nostra. La felice condizione di chi vive da padrone la sua vita e le sue azioni, da uomo libero in un Paese che, malgrado tutto, permette a ogni individuo di vivere inseguendo le proprie aspirazioni. Guardiamola intera la nostra vita, proprio ora che tutto è messo in discussione, e ricordiamoci di quanta bellezza abbiamo a disposizione, di quanta fortuna abbiamo avuto nel nascere qui, ora, in una terra di pace e di libertà.

Quando tutto sarà finito, quando questo maledetto virus sarà affidato alla memoria, ricordiamoci questi momenti. Prima di tornare a maledire il traffico, o la fila al supermercato, ripetiamoci che anche quello è parte della nostra felicità, del nostro benessere.
E se proprio dovremo amareggiarci per qualcosa, con qualcuno, potremo farlo con tutti quelli che negano a intere regioni del mondo di vivere in pace, dove l’unica normalità è quella ignobile della guerra, o della malattia. Dove niente è veramente normale, niente veramente felice. Facciamo di questa emergenza Coronavirus una dote per la nostra consapevolezza. Di noi stessi. Del mondo intero.

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