martedì 10 febbraio 2015
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I primi due dei novantanove nomi di Allah sono al-Rahman il Misericordioso e al Rahim, il Pietoso, il Compassionevole. Entrambi derivano dalla comune radice rhm, che è la stessa di 'utero': rahma è parola polisemica in arabo, che indica una costellazione di significati positivi, dal grembo materno all’armonia e alla pace, dalla solidarietà all’abbondanza per tutti. Che nesso ci può essere allora tra questo volto dell’islam e i terribili fatti di questo periodo? Come può la brutalità più efferata venir compiuta proprio nel nome di quel Dio che prima di ogni altro attributo ha la misericordia? E d’altra parte, nel tentare di leggere quanto sta accadendo, come evitare la trappola della cattiva sineddoche – identificando totalmente Stato islamico e islam – senza peraltro minimizzare la gravità estrema della situazione e il punto critico che si è ormai raggiunto?  La presa di distanza di ampia parte del mondo islamico verso l’ultima, atroce esecuzione del pilota giordano Muath al-Kasasbeh è un segnale importante, ma insufficiente ad affrontare una questione che sta diventando esplosiva.  Da una parte, come ha tra gli altri recentemente riconosciuto Zygmunt Bauman a proposito della tragica vicenda di 'Charlie Hebdo' a Parigi, ampie fasce di popolazione delle zone più povere, gran parte delle quali si trovano in territori a maggioranza musulmana, rischiano di restare vittime della «cultura dello scarto»: affacciate alla finestra che mostra un mondo di benessere e ricchezza da cui sono escluse, diventano facili prede di chi riesce a soffiare sulla scintilla del risentimento e far divampare l’incendio dell’odio.  E la religione rappresenta una bandiera nobile da far sventolare sopra gli istinti di vendetta, e una risorsa identitaria positiva che compensa l’umiliazione dell’esclusione. Ma questo non è ancora sufficiente per capire quanto sta accadendo.  Tre grandi forze si sono affermate sulla scena globale, e dai loro equilibri e intrecci molto dipenderà del nostro prossimo futuro: il sistema tecnoeconomico, con la sua capacità di amplificare la potenza superando ogni limite; la politica, con la gestione anche spregiudicata del potere; e la religione, come ambito di senso sull’esistenza umana e il suo destino. Dalle saldature tra sistemi che dovrebbero in un certo senso sorvegliarsi a vicenda per contenere le rispettive derive sono scaturiti effetti perversi: in occidente politica e tecnoeconomia, nel mondo islamico politica e religione hanno prodotto forme diverse di idolatria e fanatismo.  Le vicende del mondo islamico sembrano oggi esprimere, sotto la tracotanza, la consapevolezza di un grave rischio per la propria sopravvivenza: il germe della secolarizzazione, resa semplice secolarismo via consumismo, è una minaccia troppo seducente e potente, che rischia di minare alle fondamenta un sistema basato sulla sovrapposizione tra religione e politica. E l’islam radicale lo sa benissimo.  Non è un caso che il video della feroce esecuzione – un video che mutua le tecniche hollywoodiane di costruzione della suspense e del pathos e sfrutta la tecnica del sondaggio online per coinvolgere e rendere complice dei carnefici il popolo del web, nonché per la diffusione virale del messaggio di terrore – sia stato rilasciato (a quanto si sa) diverso tempo dopo l’accaduto, per distogliere l’attenzione dalle sconfitte militari dell’Is e riportare la guerra sul piano simbolico, che è quello che si rivela più efficace per il reclutamento.  Ma mentre condanniamo senza mezzi termini l’uso di questa, come di ogni violenza, nel nome di Dio, non si può non riconoscere che un secolarismo radicale e arrogante, che rifiuta ogni senso del limite e irride ogni senso del sacro (salvo poi costruire idoli di cui farsi schiavi) è l’altra faccia di un fondamentalismo religioso altrettanto idolatrico, che fa di Dio uno strumento da piegare ai fini del potere umano: due poli opposti ma complementari nella radice di fondo, che è il delirio di onnipotenza e il pensare di poter disporre della vita e della morte. Non c’è dialogo possibile con l’autoproclamato califfo dell’Is, è invece possibile e necessario il dialogo con il mondo islamico. Un dialogo che richiede, per potersi parlare e ascoltare, di riconoscere la legittimità della religione nello spazio pubblico e la capacità di non irridere la fede anche quando la si sente estranea a sé. Un dialogo possibile nel nome di quella misericordia che ci rende umani.
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