sabato 14 settembre 2013
COMMENTA E CONDIVIDI
Da «oggi sono felice, Damini ha avuto giustizia» a «non si otterrà niente, se non una vendetta di breve termine». Oscillano tra questi due poli, tra l’emozione e la ragione, le reazioni alla vicenda degli uomini che il 16 dicembre scorso avevano violentato e poi brutalmente massacrato su un autobus di Nuova Dehli una studentessa di 23 anni, Damini, poi morta in un ospedale di Singapore dopo settimane di atroci sofferenze. Ieri il tribunale speciale ha confermata la condanna a morte per quattro dei colpevoli. Un quinto si era suicidato in carcere a marzo. Il sesto, l’ultimo componente del branco, un minore, è stato condannato a tre anni di riformatorio, la massima pena che può essere inflitta appunto ai minori. Il caso di Damini aveva provocato ondate di proteste di donne e per le donne, come in India non si erano mai viste. E da allora le statistiche mostrano che sono molto cresciute le denunce per i casi di violenza sulle donne, come in una sorta di spontanea ribellione verso un fenomeno che in Asia ha proporzioni drammatiche: una recente ricerca, finanziata dall’Onu e da Australia, Gran Bretagna, Svezia e Norvegia, sostiene che un uomo su dieci ha commesso violenze di natura sessuale, addirittura uno su quattro se nel conto entra la moglie o la compagna, e che la metà di loro ha commesso il primo stupro ancora adolescente. Non è stata quella, però, l’unica reazione allo scandalo e allo choc nazionale. L’India, che già nel 2007 aveva votato contro la proposta di moratoria della pena di morte proposta dalle Nazioni Unite, ha ribadito il voto negativo il 20 dicembre 2012, quattro giorni dopo l’aggressione alla povera Damini. E se nel 2012, prima di quella tragedia, erano state pronunciate 78 condanne a morte (in un Paese dove il 99% dei condannati finisce comunque i suoi giorni in carcere e non sul patibolo), dopo la tragedia della studentessa i tribunali sono diventati quasi inflessibili, tanto che nel braccio della morte delle prigioni indiane si trovano oggi 404 detenuti. Si torna così laddove abbiamo cominciato. Tra il padre di Damini che esalta nelle condanne a morte la «giustizia» per la figlia, e il richiamo di Tara Rao, direttore di Amnesty International India, il quale ricorda che «non vi è alcuna prova che la pena di morte sia un deterrente per il crimine» e invita le autorità indiane a non usare la pena capitale «come una soluzione facile e sbrigativa». Il rischio esiste e non solo in India. I dati raccolti per il 2013 da "Nessuno tocchi Caino" mostrano che la campagna per l’abolizione della pena di morte manda segnali contrastanti. I Paesi che mantengono la pena di morte sono scesi a 40 dai 43 che erano nel 2011, ma i Paesi che hanno fatto ricorso all’esecuzione di condannati nel 2012 sono stati 22, rispetto ai 20 del 2011. Nel 2012 le esecuzioni nel mondo sono state poco meno di 4 mila, contro le oltre 5 mila del 2011. Ma la prima metà del 2013 ha mostrato una recrudescenza della pena, soprattutto in Paesi come Iran, Iraq, Arabia Saudita, Somalia e Corea del Nord. Occorre, a questo punto, soprattutto una forte ripresa dell’iniziativa Onu per una moratoria della pena di morte. Che può avere successo, però, solo dopo una presa di coscienza degli Stati Uniti. Con 43 esecuzioni nel 2012, gli Usa sono di gran lunga il Paese democratico che ne fa l’uso più massiccio. E l’unica nazione delle Americhe ad applicarla. In pessima compagnia, perché dei 40 Paesi che ancora mantengono la pena di morte, 33 sono dittature o regimi autoritari.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: