Chi saprà andare oltre il populismo?
mercoledì 1 febbraio 2017

Temi fondamentali se si vuole guardare avanti. Entrambi implicano la riconquista del senso del limite e della consapevolezza di ciò che ci lega gli uni agli altri. Affrontare tali questioni è possibile solo da una politica seria e visionaria insieme, capace da un lato di sostenere la domanda con investimenti pubblici miranti a elevare la qualità complessiva dei contesti socioeconomici; e dall’altro di essere garante di tutti coloro che partecipano alla creazione della prosperità collettiva. Una tale prospettiva potrebbe diventare l’asse portante per un rilancio dell’Europa, sbloccando l’attuale dibattito sull’austerity. Del modello che ha dominato in questi ultimi due decenni l’Unione Europea occorre conservare però un punto importante: per investire sul futuro e redistribuire la ricchezza, occorrono molta serietà e disciplina.

Le risorse disponibili sono limitate e non è più il tempo in cui la politica poteva usare le risorse finanziarie per comprarsi un consenso al ribasso. Al tempo stesso, per raggiungere l’obiettivo che l’austerity si prefigge (rendere la società insieme competitiva e integrata), è necessaria una forte azione propulsiva che abbia come obiettivo un nuovo modello di convivenza più integrale e più integrata. La storia, insomma, neanche questa volta è già tutta scritta. E di fronte alla svolta che il mondo si trova ad affrontare, non serve remissività. Oggi più che mai servono intelligenza, lungimiranza e coraggio.

È tempo di andare al di là della parola "populismo". L’incontro di Washington tra Donald J. Trump e Theresa May ha infatti ufficializzato l’inizio di una nuova stagione storica. Se, quasi quarant’anni fa, con Margaret Thatcher e Ronald Reagan, i Paesi anglosassoni risposero alla lunga crisi degli anni 70 del Novecento aprendo le loro economia e le loro società al mondo – avviando l’epoca che dopo il 1989 è stata chiamata "globalizzazione" – così oggi quegli stessi Paesi, a 8 anni di distanza dall’infarto finanziario che ha posto termine alla crescita espansiva associata alla globalizzazione, compiono una radicale inversione di marcia: America (Britain) first, stretta sui confini, rilancio della sovranità nazionale, centralità degli accordi bilaterali.


Le democrazie anglosassoni registrano così rilevanti umori popolari. Il cambiamento in atto non è stato sospinto dalle élite, ma dagli elettori. In Inghilterra è stato il referendum a imporre la Brexit, e negli Usa Donald Trump ha vinto non solo contro Hillary Clinton, ma anche contro il Partito repubblicano. Ancora oggi, buona parte dell’establishment – economisti, manager, imprenditori, alti funzionari... – non è affatto convinta che quella imboccata sia la strada giusta.


Anche se non lo si ammette apertamente, la virata politica nasce dai fallimenti di una globalizzazione economica che non ha saputo affrontare le proprie incongruenze: rendere mobili tutti i fattori della produzione è una operazione azzardata destinata a scontrarsi con squilibri sociali e tensioni dal lato della sicurezza. Problemi che col tempo si sono acuiti fino alla "svolta" di questi mesi. Non si cancellano, del resto, con un colpo di spugna i secoli nei quali l’ordine politico si è retto sul principio della sovranità nazionale.
Come spesso succede nei momenti di crisi, al di là delle etichette (destra, sinistra) vince chi ha il coraggio di aprire una strada nuova. E il popolo (almeno quello inglese e quello americano) ha deciso di sostenere i politici capaci di mostrare tale coraggio. Anche se le loro idee sono piuttosto confuse. C’è quindi da meravigliarsi solo fino a un certo punto: che cos’altro sono le "crisi" se non una rottura dell’ordine stabilito? Dunque, siamo una inversione a "U" che non sappiamo dove porterà. Ma occorre prendere atto che che la svolta ormai c’è stata e attrezzarsi di conseguenza.


Sul piano internazionale è probabile che la nuova direzione politica adottata dai Paesi anglosassoni porterà a un’ulteriore frammentazione dello scenario globale, con il rafforzamento di aree di influenza tra loro competitive e potenzialmente (speriamo di no) conflittuali. Sul piano interno, l’obiettivo di tornare a un effettivo controllo del territorio è destinato a incontrare non poche difficoltà: pur riconoscendo la rilevanza della questione delle migrazioni e della sicurezza, i problemi non sono affatto riducibili a questo aspetto né tanto meno sono risolvibili costruendo muri.


Il problema è che rimettere in campo la sovranità politica dopo decenni di integrazione globale è un’operazione altamente rischiosa e non si può escludere che comporti gravi involuzioni dei rapporti sociali e internazionali. Lascia perplessi, inoltre, la vaghezza sulla questione economica. Come si pensa di rilanciare l’economia? Tornando a produrre di più all’interno? Esportando di più? Richiamando i capitali? Eliminando i vincoli ambientali? Facendo investimenti pubblici? Il problema è che "chiudere le frontiere" – ammesso che sia davvero possibile – rischia di innescare una catena di reazioni da cui tutti uscirebbero perdenti.


Ed è proprio qui che si apre lo spazio per un’azione politica che prenda sul serio le ragioni che stanno spingendo i popoli a sfiduciare un’intera classe dirigente. Il tempo è cambiato. Non si tratta più si slegare, ma di rilegare. Il problema è come. È questa la domanda che bisogno porsi. A ben guardare, vi sono due grandi capitoli rimossi dall’attuale onda politica: la redistribuzione del reddito; e la sostenibilità (sociale e ambientale).

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