giovedì 15 agosto 2013
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Con il venticello di ripresa che ha iniziato ad alzarsi sull’Europa, l’esta­spread degli ultimi due anni ha gentilmente ceduto il posto all’infuocato dibattito sull’Imu. La tassa sulla casa, non più il famigerato differenziale fra i nostri titoli decennali e quelli tedeschi, è l’indiscusso rovello dell’estate 2013. Che abbina nuovamente alla valenza economica un doppio carico politico.
Si discute, si lavora e si ragiona sull’imposta anche sotto il sole d’agosto, perché a settembre – è l’impegno del governo – il nodo dovrebbe essere sciolto. Un nodo bello ingarbugliato se si considera l’enneagramma fiscale – le nove criptiche ipotesi di riforma – vagliate finora dal ministro dell’Economia. Amatissime od odiatissime che siano, ciò che fa la differenza in materia d’imposte è la loro capacità di ridistribuire la ricchezza a beneficio della collettività. Garantendo anzitutto la giustizia sociale. È il Fisco, bellezza!, e le sue radici sono remote. La vera rivoluzione compiuta da Solone nell’antica Grecia fu proprio quella di rivedere la popolazione in base al censo: era il Fisco, non più il Blasone a organizzare gli ateniesi. Ed esso era per la prima volta 'progressivo': chi più versava all’Erario, in base alla ricchezza, più anni doveva servire nell’esercito e più alti posti di comando a lui spettavano in patria.
Come dimostrano gli economisti Daron Acemoglu e James A. Robinson nel loro illuminante Perché le Nazioni falliscono: alle origini di prosperità, potenza e povertà , la differenza fra Paesi che imboccano la strada della crescita e quelli destinati a un inesorabile declino sta proprio nella capacità di modellare la società evitando le eccessive concentrazioni di ricchezza. Di ridurre cioè le distorsioni 'estrattive' che occultano denaro e potere in poche mani: da un lato attraverso un sistema che garantisca la possibilità di esprimere appieno la crescita imprenditoriale e la valorizzazione del lavoro, dall’altro assicurando una progressività nella contribuzione al bene comune.
Le Nazioni hanno quindi una diversa capacità di sviluppo economico per via delle loro differenti istituzioni, delle regole che influenzano il funzionamento dell’economia e degli incentivi che motivano i singoli individui. La rivoluzione inglese, che favorì la nascita del capitalismo, fu anche una rivoluzione fiscale 'inclusiva'. Per questa ragione i Padri costituenti inserirono la progressività nella nostra Carta: «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività». La riforma fiscale del 1973 istituì poi l’Imposta sul reddito delle persone fisiche. Ma la 'progressività' costituzionale e generale dell’Irpef, che colpisce oramai solo i redditi da lavoro – a causa dell’evasione ed elusione fiscale, in particolare il lavoro dipendente – è stata 'progressivamente' sventrata dalla riduzione della base imponibile. Paradossalmente, il colpo di grazia è arrivato proprio con l’Imu, che ha sottratto dal conteggio Irpef i redditi presunti delle abitazioni diverse da quella di residenza, per assorbirlo nella sua 'contabilità' (la famosa Imu sulle seconde case). La stessa Imposta municipale è stata successivamente 'bocciata' dall’Unione Europea perché a sua volta difettosa in 'progressività' e quindi poco equa, tanto da aggravare la povertà degli italiani.
Il ridisegno dell’imposizione fiscale sulla casa è dunque una questione cruciale di politica economica e giustizia sociale. Lo è ancora di più nella fase in cui per l’Italia si profila la possibilità di agganciare una ripresa già partita nell’Eurozona, ripresa che non potrà certo attecchire se non ripartono anche i consumi interni, con il volano di una ritrovata fiducia. Inasprire ulteriormente la pressione fiscale sarebbe in tal senso suicida.
La scelta dovrà quindi essere ben ponderata e, qualora si propendesse, come sembra, per la cosiddetta 'tassa di servizio' – imposta che in qualche modo somma la vecchia Imu e la nuova Tares – bisognerebbe evitare, con opportuni correttivi, che finisca per ricadere sui redditi da lavoro e non sul patrimonio. Da un lato, infatti, con una simile imposta, finirebbero per pagare anche i semplici inquilini che il patrimonio della casa non ce l’hanno. O pagherebbero di più, in proporzione, le famiglie numerose per i servizi ricevuti. Dall’altro, qualora fosse lasciata ai Comuni la possibilità di azzerare queste aliquote, gli stessi potrebbero essere indotti, in mancanza di trasferimenti adeguati dallo Stato, ad alzare l’addizionale Irpef comunale per reperire le risorse aggiuntive: cinquecento sindaci l’hanno già fatto. Ad essere penalizzati saranno ancora una volta i redditi da lavoro, aumentando 'regressivamente' la povertà degli italiani: chi è meno ricco paga di più. Un rischio che va in tutti i modi evitato, sottraendo le decisioni prossime sull’Imu a imposizioni ideologiche e ancor di più ai ricatti politici. E rileggendo, ancora una volta, la Costituzione.
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