venerdì 1 aprile 2016
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Michela Marzano ha condiviso il 16 marzo (attraverso il 'Corriere della sera') un articolo bello e ricco di spunti e suggestioni: come non condividere molte delle cose che afferma? Essere madre non è solo partorire un figlio, ma anche assumersi la responsabilità di occuparsi di lui con generosità e amore. E ancora, è assolutamente vero che «non si cresce e non si ha accesso alla propria umanità senza il desiderio profondo di chi, diventato padre o madre, cerca di trasmetterci il senso dell’esistenza», ed è vero anche che della maternità (e paternità) buona è parte integrante il riconoscere e accettare il figlio per quello che è, e trattarlo come soggetto portatore dei suoi propri desideri (dice Marzano: «Che gli si permetta di essere sempre 'altro' rispetto alle nostre aspettative e alle nostre domande»).
 
 
Ma è proprio a partire da queste premesse così condivisibili che le conclusioni appaiono invece davvero sconcertanti. Per prima cosa, chi si occupa per lavoro di madri, figli e relazioni non può che contestare l’affermazione secondo cui ciò che decide della bontà del rapporto è 'sempre e solo' il desiderio di maternità. Le madri (e i padri) reali, quelli che si incontrano nella vita vera, camminano sempre sulle fragili gambe di uomini e donne con i loro limiti e le loro fatiche, e neppure la maternità che nasce da un preciso e consapevole desiderio garantisce di per sé un migliore accesso alle necessarie capacità genitoriali: ho conosciuto, professionalmente e non, donne che si sono ritrovate incinte senza volerlo e che sono diventate capaci di vero amore per il figlio, e donne che invece lo hanno desiderato e cercato, ma che sono in seguito arrivate a rifiutarlo. I percorsi umani sono sempre complessi, intricati, mai scontati, e la relazione tra una madre e un figlio (quello specifico figlio) si inserisce in un tessuto che la precede, la accompagna, e spesso ne determina in modo imprevedibile gli esiti. Ma non è solo questo il punto: anche il passaggio sulla trasformazione della «sterilità biologica» in «fecondità simbolica» mi sembra trattato da Marzano in modo fuorviante.
 
 
Secondo Marzano, infatti, la maternità surrogata permetterebbe alle donne sterili di accedere alla fecondità simbolica attraverso l’aiuto di un’altra donna. Ma è proprio di questo che si tratta? Il tema della propria fecondità è centrale nella vita di ogni donna, e la capacità di portarlo su un piano simbolico è cruciale: sia che diventi madre sia che non lo diventi, per poter stare bene con se stessa la donna deve infatti poter declinare nel mondo ciò che di lei è il 'materno', quella specificazione di sé che la porta ad avere capacità di accoglienza, di cura, di immaginazione concreta e creativa a favore dell’altro. Per questo tutte le donne, anche la donna sterile o la donna vergine, sono potenzialmente capaci di grande fecondità se fanno fiorire il proprio 'materno' nei diversi ambiti della vita, dal lavoro a tutte le loro relazioni, senza che questo significhi piegarsi ad alcun genere di stereotipo. Ma il vero 'materno' è, appunto, qualcosa che riguarda la capacità di centrarsi fuori di sé, mettendo l’altro al centro.
 
 
Proprio per questo, ciò che la maternità surrogata ci propone va nella direzione sbagliata: perché il focus della questione viene messo sul 'dono' tra adulti (la madre che dona, la madre che riceve il 'dono', a patto che di questo si tratti e non di commercio) dimenticando completamente colui o colei che è il dono stesso, il figlio che deve nascere. Solo questa 'dimenticanza' cruciale può far paragonare questo tipo di 'dono' al dono di un organo, come se il figlio concepito, cresciuto nel proprio grembo e partorito, non avesse una sua specifica e originale dignità, una sua soggettività, proprio quella che, se riconosciuta, permetterà di considerarlo davvero, come la stessa Marzano auspica, portatore legittimo dei propri desideri.
 
 
Davvero possiamo dire la stessa cosa di un rene o di un pezzo di fegato? E dunque, è proprio il vero amore per ogni figlio dell’uomo ciò che impedisce di farne qualcosa che si regala (ammesso che di 'regalo' si tratti). Il desiderio legittimo di declinare la propria ricchezza materna nell’accudire e far crescere un figlio potrebbe dunque essere meglio speso nell’aprire il cuore e la vita a tutti quei piccoli già nati e che nessuno vuole: bambini che aspettano il dono di un amore che sa sceglierli, e che possono a loro volta essere dono, facendo germogliare la maternità e la paternità di adulti biologicamente sterili. E allora mi chiedo: cosa differenzia, agli occhi di chi sostiene la pratica della maternità surrogata, un neonato abbandonato in ospedale da un neonato che si riceve dalle braccia di una donna che lo ha partorito appositamente per te? Qual è la vera differenza? Non sarà forse che di un bambino abbandonato non si conosce l’origine e il bambino cosiddetto 'donato' è un bambino 'fabbricato' con qualche garanzia?
 
*Neuropsichiatra infantile e psicoterapeuta
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