Il gioco duro dei «grandi» in Venezuela
venerdì 3 maggio 2019

Sulle teste della gente del Venezuela e anche su quelle della coppia di primi attori, Nicolás Maduro e Juan Guaidó, si sta svolgendo un gioco molto più grande che vede come mazzieri almeno due protagonisti, basati a Washington e a Mosca. Vladimir Putin offre a Maduro, come già ad Assad, assoluta protezione. E lo fa per due ragioni: la prima perché ormai in Venezuela lo “zar” è, in modo non più occulto, uno degli azionisti di maggioranza e la seconda perché sa che l’obiettivo vero di Donald Trump non è Maduro ma Cuba. Le nuove sanzioni contro L’Avana anticipate proprio in queste ore lo confermano.

Cuba, da mesi, è tornata centrale nella strategia Usa. E colpire il Venezuela è colpire anche il più grande alleato e ancora fornitore di petrolio del regime post-castrista. Per questo i toni usati tra martedì sera e ieri sono termini da Guerra fredda: simili a quelli usati al tempo dell’intervento russo in Siria, ma addirittura più cupi. E inquietanti. Poi però arriva la frenata, come su Damasco, e l’annuncio dell’imminente incontro con l’americano Pompeo. Come a concedere una tregua.

Sul terreno, e sulla pelle dei venezuelani, si riverberano però questi scontri ad alto livello. Che Nicolás Maduro sia un dittatore non ci sono dubbi. Che abbia affamato e affami il suo popolo pur di restare in sella, contro tutto e contro tutti, è altrettanto indubbio. Meno chiara è invece la strategia della “rivoluzione contro-rivoluzionaria” venezuelana. In cui gli azzardi dell’opposizione, e di Juan Guaidó in particolare, hanno pesanti ricadute sulla gente comune. Quanto avvenuto martedì scorso, altro non è che la ripetizione del 23 febbraio. Ovvero della vicenda degli aiuti che mai il presidente autoproclamato è riuscito a fare entrare nel Paese ridotto alla fame. Il punto è che Guaidó continua a fidarsi degli statunitensi e ad affidarsi loro, mani e piedi. Anche se la Casa Bianca appare quanto meno ondivaga.

Ancora una volta, infatti, il leader dell’opposizione ha creduto a Donald Trump che per primo lo aveva riconosciuto come presidente legittimo. Incurante della lezione del 23 febbraio, quando s’è trovato letteralmente con il cerino in mano, perché alla fine i soldati, che aveva chiamato alla rivolta, non si sono rivoltati. E gli alleati regionali di Washington, la Colombia e il Brasile subito si sono sfilati senza mai arrivare a quella contrapposizione muro contro muro che gli analisti della Casa Bianca prefiguravano. Anzi, la vicenda invece di indebolire ha rafforzato la posizione di Maduro. Che in queste settimane sta godendo anche di un incremento del prezzo del petrolio indotto – guarda la coincidenza – da scelte dello stesso Trump che ha voluto sanzionare Teheran. Martedì, i toni di Guaidó sono stati però gli stessi già usati alle frontiere colombiana e brasiliana, da cui dovevano affluire gli aiuti. Ha intimato ai militari di ribellarsi e alla gente di scendere in strada perché «è questo il momento giusto».

Risultato praticamente identico: centinaia di feriti, almeno quattro morti (tra cui due bambini) e decine e decine di persone comuni finite a ingrossare le file dei “morti vivi” nelle prigioni gestite dai Servizi di Caracas. Il piano, ancora una volta ispirato dall’esterno, aveva almeno due certezze e tante incognite. Anche perché chiamarle speranze potrebbe sembrare offensivo nei confronti di un popolo che da anni è costretto a chinare la testa e muore di fame. Di certo c’era la possibilità di liberare Leopoldo López, garantendo ai soldati, che vigilavano la casa dove da due anni era agli arresti, probabilmente soldi e un approdo sicuro in un’ambasciata amica come quella brasiliana. E così è successo per i 25 soldati che nei filmati sono stati visti inneggiare a Guaidó nella caserma dell’Aeronautica nel cuore di Caracas.

L’ altra parte del piano prevedeva l’esibizione del simbolo dell’anti- chavismo (López) ma anche la sua salvezza all’interno prima della rappresentanza diplomatica cilena e poi in quella spagnola. Il resto del piano, però, si reggeva ancora una volta sull’improvvisazione o sulla speranza che finalmente i militari decidessero di mordere la mano a chi li alimenta. Anche abbondantemente, soprattutto per quanto riguarda i vertici. Così, il cerino è rimasto di nuovo in mano a Guaidó: per la seconda volta ha incendiato solo la piazza, spenta progressivamente dagli idranti della polizia, intossicata dai lacrimogeni dei militari e ferita da pallottole vere sparate ad altezza d’uomo.

Questo evolversi della situazione apre però inquietanti dubbi: Guaidó e i suoi alleati continuano a sottovalutare le energie rimaste a Maduro o sono convinti che il logoramento alla fine vincerà? Per ora, però, questo logoramento è solo di quella gente che continua a crederci, « que pase », che accada.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: