Vera e grave crisi da vedere e risolvere
martedì 2 febbraio 2021

Quello dell’Istat di dicembre 2020 pare un bollettino di guerra. D’una grande battaglia persa con 101mila 'vittime'. Persone che un lavoro l’avevano – precario, part time o a termine certo, ma l’avevano – e che per la pandemia l’hanno perso. E con esso hanno visto sfumare progetti, svanire sogni, veder svilita la propria dignità. Perché perdere il lavoro non è solo non poter più contare su un’occasione di guadagno, ma in molti casi suona come una condanna. Quello dell’Istat di dicembre 2020 sembra anche il bollettino d’una 'pulizia etnica'. Perché è come se in questa grande battaglia persa il nemico avesse mirato dritto sulle lavoratrici. Su 101mila occupati in meno, 99mila sono donne. E gli altri 2mila uomini sono giovani, anch’essi precari, le vittime più facili, perché i 50enni grazie al blocco dei licenziamenti sono ancora al sicuro. Per ora, relativamente al sicuro.

Questa 'strage rosa' è impressionante. Ma tutt’altro che inspiegabile, se pensiamo ai settori che stanno subendo i colpi più forti del primo e del secondo lockdown. Il commercio, con negozianti e commesse, in gran parte giovani donne.

La ristorazione in generale e le mense in particolare. Parte dei servizi alla persona fino alle estetiste. E non è neppure solo una questione di maggiore presenza femminile nei segmenti di mercato colpiti. È che le donne – le giovani in particolare – sono già le vittime predestinate del sistema di precariato e di discriminazione del nostro mercato del lavoro. Sono quelle che devono accettare di mettere insieme due/tre collaborazioni al di sotto di minimi dignitosi perché vedersi offrire un vero contratto di lavoro dipendente è ormai una rarità. Sono quelle che vengono più sfruttate negli studi professionali.

Che ancora passano da un contratto a termine all’altro o sono costrette ad accettare mezze occupazioni in nero al Sud. Già prima della pandemia, le donne italiane scontavano uno dei più bassi tassi di occupazione in Europa: il 50% contro il 65% di media Ue, con punte al di sotto del 30% nel Mezzogiorno, neanche il 15% per le giovani fino a 29 anni. In Sicilia, Calabria e Campania facevamo peggio della Guyana francese, dell’Estremadura spagnola o della Macedonia in Grecia. Già due mesi fa la Svimez aveva lanciato l’allarme: nel solo secondo trimestre 2020 al Sud le donne avevano perso così tanti posti di lavoro da annullare i progressi conquistati negli ultimi 11 anni, dalla crisi del 2008 al 2019. Fermiamoci a pensare che cosa significhi davvero aver perduto in tre mesi appena gli sforzi di 11 anni per risollevare la condizione delle donne nel Mezzogiorno.

È uno tsunami, una tragedia. E ora è peggio e questo dicembre presenta un nuovo bollettino di guerra. Oggi le forze politiche di maggioranza proseguiranno negli incontri per uscire dalla crisi di governo che si sono autoinflitte. E l’opposizione per l’ennesima volta chiederà nuove elezioni, lo farà anche chi in un tempo recente era stato al governo e, a propria volta, provocò una crisi. E ascolteremo le solite vuote parole, ci si rinfaccerà l’attaccamento alle poltrone e le velleità di comando. Uno iato e una distanza dalla realtà del Paese che impressionano. Perché questa, invece, dovrebbe essere una giornata di lutto nazionale per quelle 101mila vittime di dicembre, 444mila da inizio anno.

Dovrebbero tutti fermarsi almeno per qualche ora, maggioranza e opposizione, per riflettere su quella 'strage rosa' di 99mila donne espulse dal mondo del lavoro. Per rispetto a loro, per rispetto dei cittadini, dovrebbero mettere da parte personalismi, posizionamenti, strategie politiche e misurarsi con quel dramma. Gli ammortizzatori sociali servono, ma non bastano. Il blocco dei licenziamenti, lo abbiamo già scritto, non potrà durare all’infinito e occorre che le misure di politica attiva del lavoro appena accennate nel Recovery plan siano dettagliate e rese concrete: come si ricollocano i disoccupati? Con quale formazione? E ancora: è necessario – per favorire l’occupazione femminile e con essa la natalità – che le misure del Family Act finalmente approvate con un consenso unanime non vengano lasciate al loro destino, ma anzi ulteriormente rafforzate e sviluppate. Occorrono congedi obbligatori paritetici fra uomini e donne, interventi per favorire la conciliazione tra professione e lavoro di cura per gli uni e le altre.

È necessario favorire la stabilizzazione dei contratti per i giovani ed eliminare, come prevede anche il Next Generation Eu, quel gender gap in termini di opportunità e di remunerazione che nel nostro Paese penalizza ingiustamente le donne. I fondi per realizzare gli obiettivi questa volta non mancano, il prossimo governo dovrà impostare gli interventi, ma saranno poi altri esecutivi, chissà di quale colore di qui a 6 anni, a doverli implementare. Discutiamo tutti seriamente di questo, oggi. Almeno per un giorno confrontiamoci su ciò che si può fare concretamente. Nel bollettino di guerra dell’Istat la lista dei caduti è già troppo lunga perché se ne possa attendere un altro, badando ai propri interessi immediati anziché al futuro di chi sta già perdendo tutto.

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