giovedì 9 luglio 2015
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In quel caldo 9 luglio di quattro anni fa si ballava e si cantava per le strade di Juba. La guerra con il Nord era finita ormai da tempo. E a gennaio quasi il 99% di elettori aveva detto sì all’indipendenza da Khartum. Il 54esimo Stato africano, 193esimo Paese membro dell’Onu, nasceva con l’ampio sostegno dell’Occidente, contento di sottrarre all’uomo forte del Nord, Omar el-Bashir, la regione più ricca di petrolio. Davanti alla tomba dello storico leader sudista John Garang, forse l’unico posto di un certo interesse in una capitale, Juba, ancora tutta da inventare, a migliaia sfilavano rappresentanti di tutte le etnie. A piedi, in bicicletta, le poche auto a formare caroselli strombazzanti, con contorno di bandiere e fuochi d’artificio. Ecco, cosa resta di quel sogno chiamato indipendenza è uno dei più grandi rebus africani del nostro tempo. Perché se è vero che le premesse del Sud Sudan erano quelle di uno Stato che già arrancava alla nascita, di un Paese “dominato” dalla terra rossa, senza strade asfaltate, infrastrutture, servizi medici ed educativi di base, le speranze che i proventi del petrolio potessero lanciare in maniera significativa lo sviluppo c’erano tutte. Quattro anni dopo, invece, il Sud Sudan ha appena raggiunto il poco invidiabile record di “Stato più fragile al mondo”, secondo l’indice annuale stilato da Fund for Peace. I responsabili di questa caduta verticale sono gli stessi che incontrammo a Juba in una giornata afosa ma piena di attese. Il presidente Salva Kiir, impeccabile in abito scuro e con il suo tipico cappello texano in testa regalo di George W. Bush, disse che si sarebbe impegnato ad «abituare la gente a convivere in pace». Meraviglioso proposito. Il suo vice, Riek Machar, era d’accordo: «Bisogna passare da una cultura della guerra alla pace. C’è ancora molta violenza nella nostra società, circolano armi, siamo un popolo traumatizzato ma dobbiamo costruire uno Stato moderno per soddisfare le aspirazioni della nostra gente». Parole poi svanite nel nulla, sfociate nel dicembre 2013 in una guerra tra i due e tra i loro fedelissimi, tra accuse di tentato golpe e rivalità etniche tra i gruppi nuer e dinka a nascondere brame di potere e di controllo del greggio. Da allora, migliaia di vittime e di sfollati, un terzo degli 11 milioni di abitanti a rischio fame e le accuse di stupri e violenze rivolte dall’Onu all’esercito, che non risparmia nemmeno l’uso di bambini soldato. Senza contare il calo di oltre un terzo nella produzione di petrolio. Machar ieri ha tuonato: la guerra finirà solo quando il presidente lascerà la guida del Paese. Kiir, per ora, tace. Il suo governo ha quasi finito i soldi: resta a galla solo stampando valuta a un tasso apparentemente insostenibile e grazie a un recente prestito di 250 o 500 milioni di dollari ottenuto da un Paese del Golfo, forse il Qatar. I prezzi dei beni alimentari sono triplicati in poco tempo e gli unici sicuri (per ora) di ottenere lo stipendio sono membri delle forze di sicurezza e dipendenti dei ministeri. Nell’ormai carissima Juba, capitale di un Paese che non c’è, l’elettricità è diventata un optional, l’acqua potabile scarseggia, gli insegnanti, a causa dei loro bassi salari, spesso sono costretti ad arruolarsi nell’esercito. Le abitazioni sono rimaste quelle di un tempo: capanne, in prevalenza, o piccole e fatiscenti abitazioni in muratura con tetto in lamiera. L’analfabetismo è all’85% e si rischia anche un’epidemia di colera: le vittime sono già una trentina. Prospettive: poche. L’Onu pare ormai assecondare lo stallo, gli Usa, un tempo sponsor di Kiir, non sanno più di chi fidarsi. La morte precoce e violenta di uno Stato sovrano non è una buona notizia per nessuno. Ma nel cuore dell’Africa più d’uno sembra ormai essersi rassegnato.
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