lunedì 6 gennaio 2014
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Caro direttore,
vorrei raccontarle una piccolissima storia di Natale. La notte santa ero a Messa nella chiesa di campagna che abitualmente frequento con la mia famiglia, sulle colline a una decina di chilometri da casa mia. È una comunità di persone particolarmente vivaci, che si ritrovano lì anche da varie parti di Firenze. Il parroco, ottimo sacerdote e grandissimo amico, è da sempre noto anche per il suo impegno sociale. A svolgere il servizio di chierichetto c’era una ragazza dai modi raffinati. Gli occhi erano tristi, malinconici, velati. Per prassi, voluta dal prete e molto ben accetta dalla comunità, in quella parrocchia c’è un momento della liturgia, quello della preghiera dei fedeli, durante il quale i partecipanti sono abituati a prender la parola e fare una preghiera davvero personale che talvolta riguarda la salute di qualche persona, altre volte intenzioni più intime e non di rado questioni sociali che investono il nostro Paese. In quella notte di Natale, a un certo punto, dopo che già altre persone avevano rivolto la loro invocazione, si è fatta avanti la ragazza vestita di bianco che serviva la Messa, ha chiesto il microfono e ha cominciato a parlare con voce nitida, ma gradualmente più commossa: «So già che molto probabilmente domani sotto l’albero di Natale troverò una sorpresa che da tanto tempo desidero. So anche che troverò molti, molti altri regali. Ma io stasera a Gesù che nasce voglio dire e chiedere altro. Sono disposta a rinunciare alla sorpresa di domani, sono disposta a rinunciare agli altri regali, sono disposta a rinunciare a tutto, proprio a tutto, purché i miei genitori ritrovino l’amore che li ha fatti incontrare. Sono disposta a rinunciare a tutto quanto pur di vivere in una famiglia che torni a essere unita e che sia la mia famiglia». A questo punto si è interrotta, senza singhiozzare, anche se le lacrime rigavano il suo volto. Lacrime rigavano anche il volto di non pochi di noi, e il cuore di tutti. È da quella notte che ci ripenso e prego per quella ragazza: che il suo dolore non sia inutile e comunque la faccia crescere e diventare una bella persona. Ne ha tutte le possibilità.
Stefano Dommi, Scandicci (Fi)
Nessun dolore è mai inutile, caro amico. Nessun sentimento. Nessun legame. E nessuna speranza. Meno che mai quelli di una figlia o di un figlio nel rapporto con i propri genitori. Per ciò che una madre e un padre singolarmente sono e per ciò che come coppia, nella stessa carne di chi da loro proviene, per sempre saranno: origine e sostanza della vita e dell’amore. (A noi cristiani, ma non solo a noi, è dato di sapere che nella verità di quella relazione fertile c’è ogni volta di nuovo il travolgente mistero e l’infinita bellezza del gesto supremo del Creatore). Cronache, statistiche, indagini sociologiche, studi psicologici, piccola e grande letteratura, narrazioni cinematografiche e televisive possono raccontarci anche storie molto diverse, persino diametralmente opposte alla storia vera che lei condivide con me. La storia di una figlia che prega Dio, e in cuor suo già compie rinunce, per preservare non solo una cara consuetudine, ma ciò che davvero e più conta: l’amore tra i membri di una famiglia, che è potente, fragile e irrequieto come tutti, eppure felicemente circolare e potenzialmente perfetto perché in grado di comporre tutto l’interesse e il disinteresse, la passione e la gratuità, l’impeto e la pazienza che nei rapporti umani è possibile... Lei, gentile signor Dommi, la definisce «piccolissima storia» e, invece, così minima non è. E neppure bizzarra o irrimediabilmente singolare. È una storia dolce e amara, come tanti nostri giorni, come tante nostre esperienze. E più di altre persuasiva e istruttiva. Chi ha figli si rende conto che una famiglia unita e serena è il primo dei desideri, tanto più forte ed esigente quanto più incombente è la sensazione che quel bene possa essere perduto. Ecco perché quando riusciamo a ricordarci del nostro esser stati figli, siamo genitori e sposi migliori.
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