mercoledì 20 febbraio 2013
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​Che lo sport abbia sempre anticipato scelte e tendenze politiche e sociali, è un dato di fatto. Per ora invece è poco più di una suggestione che la vittoria, pur clamorosa e inattesa, di un “rottamatore” (toh, a volte ce la fanno) possa essere indicativa di una rivoluzione vera dello sport italiano. Primo perché è tutto da dimostrare che – almeno qui – un cambiamento radicale sia necessario, al di là di un sempre utile rinnovamento di idee e di energie. E secondo perché Giovanni Malagò, da ieri mattina nuovo presidente del Coni, pur essendo formalmente estraneo alla Casta dell’atletismo nazionale, del Coni e dei suoi corridoi di potere è stato per anni silenzioso ma non scomodo inquilino prima di riuscire a far sloggiare gli antichi padroni di casa. Dopo 14 anni di regno, a Gianni Petrucci non è riuscita l’ultima impresa. Quella di piazzare sulla sua poltrona l’erede designato, quel Raffaele Pagnozzi da sempre fedele segretario generale ed eterno sodale che, secondo una straordinaria metafora scelta come slogan (purtroppo non ironica nelle intenzioni), rappresentava «il rinnovamento nella continuità». Quaranta dei 76 grandi elettori del Coni che, anomalia tutta nostrana, votano in nome di 15 milioni di sportivi, gli hanno ribaltato il destino nel segreto dell’urna dimostrando che all’interno dello sport italiano c’era e c’è un forte malcontento. O forse solo un irrefrenabile prurito di cambiare bandiera all’ultimo secondo. Qualcuno ha parlato di tradimento, altri di imboscata. Ma i toni migliori ieri – mentre chiunque omaggiava il vincitore anche senza nemmeno conoscerlo e assicurando (che pena) di averlo sempre sostenuto – li hanno saputi usare proprio gli sconfitti, che hanno riconosciuto a Malagò l’abilità politica di sorprendere tutti. Ora, più che “perché” lo sport italiano provi a voltare volta pagina nei volti e nelle idee, conta sapere “come”. Il nuovo presidente non ha solo picconato i programmi altrui come in contemporanea oggi accade in altri palcoscenici elettorali, ma ha proposto ricette opposte. Ha promesso una scossa, ha capito che affidare il futuro solo ai contributi pubblici (411 i milioni di euro erogati quest’anno, ma fino a quando?) non può bastare. Ha indicato nuove strade di finanziamento, ha evocato meno Stato e più risorse private, per poter incrementare davvero una maggiore diffusione della pratica sportiva. Malagò sa che la giustizia sportiva va finalmente riformata, che la legge sugli stadi non può essere rimandata in eterno. Anche se poi ha provato a ipotizzare il vituperato calcio miliardario fuori dalla Giunta, dimenticando che il pallone italiano è fatto anche e soprattutto di migliaia di campetti spelacchiati, di arbitri volontari, di papà allenatori e di ragazzini entusiasti. Non di potere, ma di gol. Errori di inesperienza, che non lo hanno penalizzato. Meglio così: difficile non regalargli fiducia. In un sistema sportivo che pare un reparto geriatrico – nell’anno olimpico appena concluso l’età media dei presidenti federali era di 62 anni e quella dei nostri atleti ai Giochi superava i 30 – l’energia, l’entusiasmo e i 53 anni di Malagò sono già un’anomalia incoraggiante. Obiettività e verità però impongono anche di ricordare che il Coni di Petrucci esce da un’epoca di successi straordinari, in piena controtendenza rispetto alle serie, e persino atroci, difficoltà del Paese. Il nostro sport ha promosso ed eletto l’attività di base, scegliendola come punto fondamentale di partenza. Ha provato a conquistare più spazio nelle scuole, ha esaltato la disabilità trasformandola in un trionfo epocale. Ha vinto facendo da sé, inventandosi storie e campioni, costruendosi una credibilità scalfita – è vero – da molti scandali. Ma avendo il coraggio e la forza di smascherarli e combatterli, probabilmente più e meglio di qualunque altro Paese al mondo. Dai casi di doping al Calcioscommesse, il Coni – il  Coni di Petrucci e Pagnozzi, raccontato come «vecchio» e «retrogrado» – ha processato e punito. Senza esitazione, e con trasparenza esemplare. Lo sport dell’usato sicuro non ha perso comunque. Ieri ha solo lasciato all’innovatore Malagò una linea dalla quale è impossibile tornare indietro. C’è una sfida continua da combattere: di salute pubblica attraverso la pratica atletica, prima ancora che di medaglie. Chi la porta avanti, poco importa. Il traguardo non è cambiato.
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